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 2020  settembre 30 Mercoledì calendario

Ciò che la scuola fu per i contadini

In Calabria «le scuole, da spopolate che erano, diventano un anno più dell’altro frequentate. Bisogna vedere lo zelo che mettono le mamme popolane per far accogliere i figli a scuola e nel vigilare i piccoli progressi! Il fanciullo viene ripulito, vestito e accompagnato a scuola e raccomandato con viva espressione di calore alla diligenza del maestro...», si legge negli atti della monumentale Inchiesta sulle condizioni della classe agricola in Italia, nata nel 1872 e conclusa, sotto la guida di Stefano Jacini, nel 1885. E perché tanto zelo da parte di quelle donne nella stragrande maggioranza contadine e analfabete? «Perché il padre scrive dall’America che suo figlio deve essere istruito, perché ora soltanto egli si accorge del danno del non sapere...».
Mette il magone, quasi un secolo e mezzo dopo, rileggere quanta fiducia riponevano allora le classi più povere nella scuola. E nella sua funzione di crescita, liberazione dalla servitù ancora in vigore in tanta parte del Mezzogiorno, di riscatto sociale. Ancor più mette il magone rileggere quelle parole oggi, mentre crescono le denunce sul rischio che la pandemia e le difficoltà di quanti non sono in grado di tener il passo con la scuola in remoto (ritardi non recuperabili in tempi brevi) facciano schizzare ancora più su i dati dell’abbandono scolastico, già drammatici in tanta parte del Sud. A partire dalla Campania. Straordinario fu per decenni, come ricordava mezzo secolo fa Tullio de Mauro nel saggio Storia linguistica dell’Italia unita, proprio il ruolo degli emigrati siciliani e veneti, abruzzesi o piemontesi. Un esempio? «L’inchiesta nelle campagne siciliane constatava che gli iscritti nelle scuole elementari, dal 54,50 % nel 1901-1902, erano saliti al 73,50% appena cinque anni più tardi: la ragione va cercata nell’anima stessa del popolo il quale, nonostante le ostilità e le difficoltà dell’ambiente, è persuaso che la scuola rappresenta per lui un’arma di lotta e di conquista». Per dirla con lo statistico Francesco Coletti, «vanno via bruti e tornano uomini civili». Valeva per i nostri nonni che partivano per l’America, vale per quegli immigrati che sono venuti in Italia in cerca a «catàr fortuna», vale per i ragazzi italiani di oggi ai quali, come ai loro nonni, viene chiesto di avere la testa aperta a un mondo più grande. Col quale possono dialogare davvero solo crescendo, crescendo, crescendo.