La Stampa, 30 settembre 2020
Laura Morante parla di tradimenti
L’impressione è che sulla dialettica dell’amore, sul decalogo delle stare insieme, sulle regole, dette o non dette, della vita in coppia o senza, Laura Morante sia preparatissima. Merito di un approccio morbido, equilibrato. Per questo, forse, ritrovarla nei panni di Vanda, la moglie tradita che, in Lacci di Daniele Luchetti (da oggi nelle sale), sceglie di riprendersi il marito e di continuare a vivere con lui ricucendo le ferite aperte, fa un certo effetto: «Non so se è una questione di coraggio. Di sicuro la durata non coincide con la riuscita». Nel dilemma tra rompere e restare, Morante ha una sua idea precisa: «Una volta ero ospite di una trasmissione televisiva, si discuteva di questo argomento e io, creando un po’ di imbarazzo, dissi "ma che c’entra? anche l’inferno è eterno". Insomma, non è che se una cosa dura molto, significa che sia buona. Come diceva Saba anche l’amore di un mese può essere vero e profondo. I due personaggi del film si sono fatti del male restando insieme, non perché non provino vicendevole affetto, ma perché non hanno preso atto del modo in cui quell’affetto avrebbe dovuto evolversi».
Difficile trovare qualcuno che, in qualche modo, non abbia vissuto situazioni simili: «Posso dire - osserva Morante - di essere un esempio vivente. Con Daniele Costantini, che è il padre di mia figlia Eugenia, ci sentiamo tutti i giorni, scriviamo sceneggiature insieme, abbiamo un rapporto molto bello. Se ci fossimo ostinati a restare insieme, probabilmente avremmo finito per odiarci». Quindi meglio andarsene: «Ovviamente ogni caso è a sé, ci sono anche situazioni in cui un amore è ancora vivo, magari sepolto sotto una serie di incomprensioni che si possono smussare». I tradimenti si perdonano? «La questione non è tanto il tradimento, quanto la lealtà. Ci può anche essere un rapporto aperto che funziona benissimo. Mentre per me è terribile spezzare quel legame di lealtà. Poi, naturalmente, succede, e allora contano molto i modi. Ci può anche essere un’infedeltà senza tradimento effettivo, e poi ci sono quelli che tengono i piedi in due staffe, ma è un’altra cosa».
In Lacci, Morante, che ormai è anche affermata regista, recita e basta: «Sono due cose diverse. Come fare l’amore e praticare l’autoerotismo. Mi diverte molto auto-dirigermi, ma essere scelti da un regista è bello, significa avere la sua fiducia». Magari la pratica dietro la macchina da presa può far venire voglia di dare consigli: «No, quando faccio l’attrice, lascio a casa la regista. Anche se non sono un’attrice passiva, anzi. Prima delle riprese, c’è sempre un lungo lavoro di preparazione e questa fase mi piace molto. Una volta mi è capitato di leggere una sceneggiatura e di trovare una scena che non mi piaceva. L’ho detto al regista, e lui, stupitissimo, mi rispose "ma tu in questa scena non ci sei"».
Le decisioni di lavoro, spiega Morante, sono dettate dalle storie e dai registi: «Ho scelto sempre i film e non i ruoli. Se un film mi sembra bello, accetto anche ruoli piccoli». Quello che importa è il valore dell’esperienza, in un universo lavorativo che nel tempo, per le attrici, è piuttosto mutato: «La verità è che dipende dai termini di paragone. Rispetto all’800 siamo andate avanti, rispetto all’immediato post-femminismo siamo andate indietro. C’è stato un periodo devastante in cui certi valori che il femminismo ci aveva trasmesso sono andati perduti. Penso all’epoca berlusconiana in cui, in Italia, il modo di considerare le donne era molto peggiorato, saltava agli occhi appena accendevi la tv. Adesso c’è di nuovo voglia di alzare la testa, c’è una corrente positiva, bisogna vedere se siamo in grado di andare avanti su questa strada, credo che una voglia di recupero di dignità esista».