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 2020  settembre 30 Mercoledì calendario

Berengo Gardin e le sue foto alla Olivetti

I corsi di formazione davanti ai polimeri di plastica, l’asilo, ragazzini in maschera e altri bambini che corrono incontro all’obiettivo, sorrisi dalla spiaggia della colonia: fotografia di fabbrica anche se non sembra. «È un genere estinto», lo dice uno dei massimi interpreti del genere, Gianni Berengo Gardin, 90 anni tra dieci giorni. Camera, il centro per la fotografia di Torino, gli dedica una mostra che apre domani (fino al 15 novembre) per celebrare il rapporto con la Olivetti e una vita a caccia della trasformazione. Sempre a scattare, con l’ansia di perdersi il momento che inquadra il cambiamento e la convinzione di poter raccontare il lavoro con una coscienza sociale capace di migliorarlo. Alla Olivetti del 1965 avrebbe dovuto documentare la produzione, ne ha catturato la vita. Un’esperienza unica per l’industria italiana che ancora resta a metà tra modello e utopia, una sorta di sogno riuscito e precario che invece è esistito davvero. Così, romantico come lo si ricorda, proprio come esce dall’archivio di Ivrea. Un recupero a puntate da cui oggi emerge «la ricerca del benessere attraverso la fruizione degli spazi», un’operazione al limite dell’illusione che i curatori Margherita Naim e Giangavino Pazzola definiscono «quasi zen».
Berengo Gardin, le foto esposte vanno dal 1965 all’inizio degli anni Novanta: che effetto le fanno oggi?
«Ancora mi commuove la scelta di edifici bellissimi, sempre. Mi interessava l’uomo, ma è subito stato evidente che quelle architetture erano pensate per trovare un equilibrio, scartare la catena di montaggio, e per questo, spesso, si sono prese la scena».
Molti scatti non sono praticamente mai stati visti.
«Ritrovarli ha scatenato emozioni profonde e un’infinita nostalgia».
Partiamo dalle emozioni.
«Sono arrivato alla Olivetti un paio di anni dopo la morte di Adriano, ma i suoi uomini stavano tutti lì, persone di cultura messe nei posti chiave. Io ero giovane e mi bevevo le infinite discussioni intellettuali. Mi era chiara l’eccezionalità: scattare tanto e di continuo era un imperativo».
La macchina fotografica ha colto anche il declino di quel modello?
«Il progetto era vivo, lì hanno inventato il computer, stavano avanti di decenni, poi è sparito tutto: colpa della cattiva gestione negli anni successivi»
Di quell’idea però è rimasto poco in assoluto, nel mondo.
«Da qui la nostalgia. Se penso al lavoro di oggi senza più peso o considerazione, dalla parte di chi offre come da quella di chi cerca. Alla Olivetti c’era una biblioteca, "gli operai sono troppo stanchi per leggere quando tornano a casa"... Si offrivano svaghi per le pause, sostegni per le famiglie, gli asili. Sono rimasto scioccato quando ho visto passare nella linea di produzione il cameriere con il thermos del caffè».
Ha fotografato diverse fabbriche, altro caffè?
«Nulla di quello che ho visto lì si è più ripetuto. Giusto che la fabbrica pensi al guadagno, ma quella era sostenibile perché aveva capito che il coinvolgimento aumenta il ritmo. Incassavano bene».
Perché non hanno avuto seguito allora?
«Per il controllo. Non per mancanza di investimenti o inventiva, ma per assenza di fiducia. Olivetti era la mia committente eppure circolavo libero, dopo ho sempre avuto accompagnatori. Uffici stampa, dirigenti, osservatori. Non censuravano, limitavano».
Si dice Olivetti e si pensa a Ivrea, ma la mostra scopre altri luoghi.
«Spagna, Inghilterra, Crema, Napoli. Sempre stabilimenti in bei posti, strutture affascinanti che restituiscono equilibrio».
Se oggi dovesse continuare quel reportage si occuperebbe di smart working?
«No, perché di certo ci sarebbero soggetti ripresi con gli smartphone, i telefoni hanno ucciso la fotografia. Fai clic lì sopra e qualsiasi persona, qualunque paesaggio, ogni possibile angolo ha la stessa superficialità».
Mai fatto un selfie?
«Nelle rare volte in cui me lo chiedono dire di no mi sembra severo e dire sì stupido. Mi adatto».
Quindi che fabbrica sceglierebbe per raccontare il lavoro oggi?
«Non lo farei più: i 90 anni si fanno sentire e il lavoro si fa desiderare. Ne ho realizzata di fotografia industriale: la Fiat, la Iveco, la Ansaldo, la Dalmine. Le grandi imprese avevano un’altra anima, erano dinamiche, promettenti, però sentivo la macchina più potente dell’uomo».
La foto di fabbrica non esiste più?
«Non esiste neanche la classe operaia ormai. Ci siamo imborghesiti tutti».