Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 30 Mercoledì calendario

Biografia di Antonio De Marco

Carlo Vulpio, Corriere della Sera
CASARANO (Lecce) È come se si fosse materializzato dal nulla e un brutto giorno tutti si fossero accorti di lui. Fino a quel momento, fino a quando le sue mani non si sono macchiate del sangue innocente di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sembra che nessuno conoscesse o avesse anche solo sentito parlare di Antonio Giovanni De Marco, ventuno anni, studente fuori sede in Scienze infermieristiche.
Antonio è nato qui, a Casarano, nel Basso Salento, in una cittadina di ventimila abitanti che fu uno dei più importanti poli calzaturieri d’Italia fino alla fine del secolo scorso, e qui ha vissuto per diciannove anni. Eppure nessuno lo conosce, nessuno ne sa nulla, nessuno lo ha mai visto. Di Antonio De Marco non sa nulla il sindaco di Casarano, Ottavio De Nuzzo, geometra, che tra i suoi clienti ha avuto i genitori e finanche i nonni di Antonio. Non ne sanno nulla gli amici di Salvatore De Marco, il padre di Antonio, quelli che andavano a caccia con lui e lo definiscono «un bravo falegname e un gran lavoratore, rispettosissimo delle regole, tutte, quasi un calvinista, e lo stesso vale per sua moglie Rosalba Cavalera». Ma di Antonio, nulla. Non ne sa niente il proprietario della palestra Gym Center, frequentata da Antonio fino a due anni fa, quando non si era ancora trasferito a Lecce. Non ne sanno nulla gli altri frequentatori della stessa palestra, e nemmeno i suoi colleghi di corso all’ospedale Vito Fazzi di Lecce, persino quelli che erano con lui alla festa di compleanno di una tirocinante, tre giorni fa, la sera in cui si stavano celebrando i funerali di Eleonora e Daniele.
Antonio De Marco, a Casarano, non se lo ricorda nessuno. Della sua famiglia, tutti sanno tutto, anche fino alla terza generazione e ai suoi nonni materni Amleto e Anita. Ma di Antonio, non un ricordo dell’asilo o delle elementari o delle superiori. Solo una immagine lontana e sfuocata di lui chierichetto nella chiesa della Madonna della Campana.
Lo stesso oblio della profonda provincia salentina accompagna Antonio a Lecce, il capoluogo, la città del barocco accecante, sede dell’università, dove Antonio non ha bisogno di nascondersi perché tanto nessuno lo vede. Introverso, taciturno, solitario, pensieroso, ma all’apparenza tranquillo e rassicurante, parla come tanti suoi coetanei. Senza usare la voce. Soltanto con le chat, gli sms e qualche commento sui social network.
Per il resto, la sua vita è un mistero. Chi frequenta quando ha finito di studiare, dove va, con chi condivide i suoi momenti intimi, è una zona oscura della sua esistenza. O forse è proprio questa la sua esistenza reale, che lui stesso ha deciso di oscurare, come quando si è vestito di nero, ha celato il volto dentro un cappuccio e ha eseguito il suo piano criminale con una brutalità nettamente in contrasto con il suo viso delicato, efebico, e con i suoi modi gentili, mai rudi e persino quasi mai virili.
Quando Daniele De Santis ha affittato ad Antonio una stanza del suo appartamento in via Montello, un anno fa, se lo è «messo in casa» anche perché convinto di avere a che fare con un ottimo ragazzo. I due hanno convissuto insieme in quell’appartamento, dove ogni tanto Eleonora andava a trovare Daniele, per diversi mesi. E per un intero anno — dal 29 ottobre 2019 al 17 agosto scorso — hanno chattato con assiduità. Poi, qualcosa si è rotto. Eleonora, che sempre più spesso si fermava in quella casa con Daniele e con lui aveva deciso di convivere, diceva di sentirsi a disagio per la presenza di Antonio e confidava a un’amica d’infanzia il suo stato d’animo. Mentre Antonio cominciava a sentirsi «tradito» e «abbandonato», voleva rimanere in quella casa, anche se a viverci stabilmente sarebbero stati in tre, e non più soltanto lui e Daniele.
Quando capisce che è finita, si rifugia sul web, e qui, il 3 luglio, trova e condivide un post su un articolo intitolato «Psicologia della vendetta», che, in un delitto ancora senza movente come questo, andrebbe analizzato parola per parola: «Il desiderio di vendetta — dice il post che attira l’attenzione di Antonio De Marco — è una emozione che fa parte dei nostri impulsi più elementari quando siamo vittime di un’aggressione o di un’ingiustizia. Non è però utile ad alleviare le sofferenze: se da una parte fantasticare la vendetta può essere liberatorio, non si deve esagerare perché rischia di peggiorare le cose».
Il commento di Antonio al post è eloquente: «Un piatto da servire freddo… È vero che la vendetta non risolve il problema, ma per pochi istanti ti senti soddisfatto», più due emoticon di risate. Poi, il 6 luglio, invia a Daniele un sms con cui gli chiede per l’ultima volta di affittargli quella stanza in casa sua. Non sappiamo cosa è successo dopo. Sappiamo solo che Antonio si materializza di nuovo quando va e uccide.




***



Brunella Giovara, la Repubblica
Da quassù si vede il mare, che è un lampo luccicante. Là c’è Gallipoli, la spiaggia, la vita dei giovani, neanche il Covid ha spento l’estate appena passata. Ma questo giovane, al mare non ci andava, eppure sono solo 18 chilometri. Ragazze? No. E cosa faceva. «Andava a Lecce a studiare, tornava il fine settimana. Salutava appena». L’imbianchino che abita in via Sciesa l’ha visto domenica, «e lui ha fatto fatica a ricambiare il buongiorno», ma Antonio aveva questo modo di salutare, con la mano davanti alla faccia, «nascondeva lo sguardo», era fatto così, non si sapeva mai come stava, cosa pensava, cosa aveva in testa.
E non si sa se la famiglia avesse una qualche preoccupazione sulla vita del figlio minore, ora sappiamo che era un taciturno e se ne stava per conto suo, che ai carabinieri ha detto «io sono solo, io mi sento solo». Loro invece erano in due, ed erano pure felici, Daniele e Eleonora nelle foto ridono sempre. Erano la parte brillante della vita, vista da uno che ce l’aveva opaca e scrutava con invidia quella degli altri. «Lui non rideva mai», questo lo dicono tanti in paese ricordando la figura sfuggente, che usciva poco anzi niente, faticava a stare con il prossimo, forse soffriva. Con il senno di poi, sappiamo che ha preparato un doppio omicidio con una cura speciale, la candeggina per lavare via il sangue forse l’aveva imparata a casa, dove la mamma Rosalba teneva tutto «a specchio, era una brava casalinga».
In via Sciesa si parla dei De Marco come se fossero tutti morti, e in fondo c’è qualcosa di vero: «Sono morti di vergogna. Li conosco bene, sa Dio come si sentono adesso. Hanno dovuto scappare via, nella notte c’è stata la perquisizione, le luci accese fino alle due». Eppure, sembrava un bravo “vagnone”, che in dialetto vuol dire ragazzo, e anche bambino.
Il bambino Antonio Giovanni è stato un bambino sfortunato, gravi problemi alla schiena, fin da piccolo ha dovuto portare un busto feroce, nella strada nessuno l’ha mai visto giocare a pallone, o andare in motorino, con quella gioia sfrenata dei 10 anni, e dei quindici, e avanti attraverso la scuola, gli amici e le amiche, le prime ragazze che ti accompagnano alla vita vera. «Stava sempre nella sua camera, usciva dopo cena a fare un giretto, rientrava quando i giovani escono», dice la signora Valeria, che abita tre case più in là. Quindi, alle 21,30 questo giovane tornava su per la strada in salita, la casa del civico 31 è proprio in cima, poi si scende verso il paese, «è da anni che siamo in crisi, crisi dei calzaturifici, perché noi siamo il paese delle scarpe del Sud. Poi la xylella. Adesso questo», l’anziano sceso dall’Apecar arriva dalla campagna, Casarano è circondata da uliveti morti, il Salento è un cimitero di piante.
Al pianterreno del civico 31 ci vive la nonna, a fianco la serranda della falegnameria del padre Salvatore. Al primo piano la vita tranquilla dei De Marco, «nessuno ha mai avuto da ridire. Li compatiamo, sono devastati. Questo paese diventerà come una piccola Avetrana, penseranno che è tutta colpa loro», e questo lo dice un certo Luigi, che ha due figli dell’età di Antonio, e dice anche «li tiri su come meglio sai, poi se ne vanno per la loro strada», a volte deragliano.
La sorella Mariangela fa la catechista, una bambina racconta «che è molto paziente e bella. Poverina, adesso ha il fratello assassino come Barabba», si vede che al corso erano già arrivati al Golgota. «Un colpo di testa», dice un tizio, intanto la strada si è riempita di macchine che rallentano, si fa la foto alla porta di casa, la facciata verde sbarrata, le piante di pitosforo ben curate, i De Marco ci tenevano al decoro. Tutto questo è stato cancellato da un figlio solitario, agg rappato a una esistenza segreta. Un profilo Instagram come Antonio De Marco, uno Facebook come Giovanni, il secondo nome. Già studente modello all’Istituto tecnico Meucci, 200 metri da casa, «era un secchione, sempre bei voti. Non parlava granché», ricorda il coetaneo Matteo, che però era in un’altra sezione. Una vita social scarsa, con il post sulla vendetta «piatto da servire freddo» che ora fa tanto pensare, ma più che altro bazzicava blog di psicologia facile, Psicoadvisor, Universo psicologico, consulenze gratuite online, molti errori di battitura «in quello spazio infinito che è la nostra mente», lì Antonio Giovanni ha capito chi sono gli Hikikomori, studiando i sintomi della sindrome che isola i ragazzi nella loro cameretta, e in effetti qualcosa c’era. Ma bisogna anche dire che frequentava un corso da infermiere professionale, una delle rare foto lo mostra con compagni che ridono o sorridono. Lui no. Le lezioni lo riportavano al reale, dopo tornava in camera sua, a studiare il piano perfetto, salvo perdere i pezzi per strada, i foglietti macchiati di sangue, la calza di nylon che gli copriva il viso, un Pollicino tragico di 21 anni, con la “camminata particolare” notata da molti dopo la mattanza, ed era tutta colpa del busto.