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 2020  settembre 29 Martedì calendario

Liliana Cavani documentarista (intervista)

ROMA. Il romanzo di formazione della giovane Liliana Cavani è passato per i villaggi fantasma e la speculazione edilizia nell’Italia del boom, le sconvolgenti immagini dei lager aperti, il collaborazionismo francese e le donne della Resistenza. Un’esperienza che ha profondamente influenzato il suo cinema, dal Francesco d’Assisi che diventò il suo primo film a Portiere di notte. A ventott’anni, già laureata in Lettere antiche e al secondo anno del Centro sperimentale, "ebbi l’idea di fare un concorso alla Rai. Passammo in trentasei su undicimila. Con stupore di tutti rifiutai il posto: alle donne venivano affidate solo trasmissioni e varietà. Io volevo fare il cinema. Mi affiancarono a Nelo Risi, per poi affidarmi una serie di documentari".

Quei lavori, realizzati dal 1961 al 1966, sono riproposti da Rai Cultura in dieci puntate da mercoledì 30 settembre su Rai Storia alle 22, intervallati dalle conversazioni con il curatore Massimo Bernardini.
All’incontro con Liliana Cavani, nella casa trasteverina con affaccio sul Tevere, l’autrice, 87 anni e una mente saldissima, sorride: "È stata l’occasione per un viaggio indietro nel tempo". Il primo corto è quello di fine anno al Centro sperimentale, premiato con il Ciak d’oro. "In classe eravamo quattro italiani e 19 uditori da tutto il mondo. Avevo fatto le elementari a Carpi, il liceo a Modena e l’Università a Bologna, fui affascinata dai nuovi compagni: un nigeriano, un senegalese, un cubano, un colombiano, un norvegese e costruii una storia con tutti loro". In quel viaggio di conoscenza che sono stati i documentari la regista con passione, curiosità e rigore restituisce pagine di storia.

Il lavoro fatto sul tema delle abitazioni - La casa nell’Italia del boom - suscitò clamore: "Nel ’63 mi spedirono a documentare gli effetti della Cassa del Mezzogiorno, da Torino a Palermo. Purtroppo scoprii che non ce n’erano stati molti, specie al Sud: i fondi arrivavano a latifondisti e mafiosi. Mi trovai la mattina presto a entrare in cavità senza finestre in cui famiglie, asinelli e pecore erano costretti insieme, filmai 14 villaggi fantasma: i latifondisti che costruivano villaggi troppo lontani dai luoghi in cui i contadini lavoravano. A Napoli i bimbi giocavano in strada nudi, alle Vele già allora i padri di famiglia avevano paura a far uscire le loro figlie. Era stata bella l’idea della Cassa, voluta da Fanfani, ma la verità è che in gran parte era fallita e mi ero ritrovata di fronte a un’Italia arcaica. Nessuno pensava che le cose fossero ridotte così e questo mise in crisi il nostro gruppo in Rai, Gennarini, Motta, lo stesso Bernabei che era un fanfaniano: mi avevano mandato per dire che si stava facendo qualcosa di buono. Quell’inchiesta fu sempre più tagliata di puntata in puntata, i cinquanta minuti si dimezzarono".

Un lavoro di repertorio fu invece quello sul Terzo Reich. "Fu difficile reperire il materiale dall’Est Europa. Fui sconvolta dai video sull’apertura dei lager, con il montatore dovemmo fare molte pause. Mi turbò la connessione stretta tra nazismo e fascismo. Tutto era una scoperta anche per me, avevo studiato Lettere classiche, Tucidide ed Erodoto, la storia romana. Sui banchi, forse anche oggi, non si andava oltre la prima guerra mondiale. Il negazionismo è figlio dell’ignoranza. Non conoscendo la Storia siamo costretti a ripeterne gli errori. Quella guerra fu conclusa da due bombe atomiche, oggi siamo seduti su bombe all’idrogeno ancora peggiori". Per raccontare il collaborazionismo, Vichy e Pétain, nel ’64 "andai a Parigi, finalmente giravo fuori dall’Italia. Parlai con i vecchi capi, ricordo il generale Weygand, aveva novant’anni, sordo, io quasi in ginocchio per chiedergli notizie. Per Il giorno della pace sono andata a Berlino Est, fui l’unica della troupe a passare il check point, ’non vi scordate di me’".


E le donne della Resistenza, "combattenti, non solo staffette. Ne intervistai una quindicina, nel ’65 erano ancora giovani. Una maestra di Cuneo che si salvò a Dachau, le partigiane francesi le dissero "fa quel che vuoi contro i guardiani, non torcere un capello, anzi aiuta le prigioniere". Ogni anno tornava una settimana a Dachau. E poi una bergamasca che era stata torturata e sfregiata perché denunciasse gli altri partigiani. Il sottotenente che a 26 anni aveva guidato la battaglia di Porta Lame e liberato Bologna dai tedeschi, e il colonnello che aveva guidato la liberazione di Monte Fiorino. Le donne facevano la Resistenza perché speravano in un mondo nuovo per le tutte le altre. L’ultima fu una milanese partigiana scampata a Auschwitz. Al ritorno le dicevano di non pensarci, lei non poteva dimenticare. Le chiesi che cosa non perdonava ai suoi carnefici: ’L’avermi fatto trovare dentro di me una capacità di fare cose che disapprovo’. Da lì è nato il soggetto di Portiere di notte, da quel suo rimproverarsi di essere sopravvissuta".

Cosa resterà di questo tempo che stiamo vivendo? "La storia del nostro paese è connessa all’Europa, un’unione fondamentale dopo che ci siamo dilaniati nella seconda guerra mondiale. Perciò mi ha sorpresa una civiltà inglese che non riesce ad essere europea e pensa di fare da tramite commerciale con la finanza americana. È brutto pensare di cavarsela così, è arretrante". Il progetto che prepara al cinema non è un documentario, "i più belli oggi li fa Gianfranco Rosi, cinema puro", ma un film con Carlo Rovelli basato sul libro L’ordine del tempo. "Il tema è la terra, una situazione in cui può ritrovarsi il genere umano. L’epidemia è la prova che siamo figli tutti della terra, nessuno può pensarsi isolato. Dovrebbe essere una lezione, per noi che negli ultimi anni ci siamo riempiti di bombe all’idrogeno".