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 2020  settembre 29 Martedì calendario

Ritratto di John McEnroe

L’ho incontrato di persona solo un paio di volte, e in entrambi i casi, subito dopo le presentazioni, mi ha fatto la stessa domanda: «giochi a tennis?». La prima volta risposi «sì», poi, cercando di fare lo spiritoso, aggiunsi «non credo però sia lo stesso sport che giochi tu». John McEnroe rimase assolutamente serio, poi mi squadrò con aria curiosa e severa. La mia battuta cadde nel vuoto e tentai di cambiare subito discorso, ma lui continuò a squadrarmi: per quanto incredibile mi fissava come se fossi realmente un possibile rivale. Quando lo incontrai la seconda volta, memore di quella reazione, risposi direttamente «no».
Non ricordava di avermelo già chiesto, e stavolta mi guardò incredulo, come una persona che non sapeva cosa stesse perdendo, nella vita. Evitai qualunque battuta, e mi limitai a citargli alcuni match memorabili, come la terza vittoria a Wimbledon dove sconfisse 6-1, 6-1, 6-2 un grande campione come Jimmy Connors: mi sorrise felice. Il nostro primo incontro era avvenuto in occasione del compleanno di un’amica comune, la quale, conoscendo la passione che avevo per lui, mi mise a sedere al suo fianco. Non posso dire che fu molto espansivo, ma a cominciare da quella prima domanda mi resi conto che l’approccio che continua ad avere nei confronti di chiunque è quello della sfida, da combattere sul proprio territorio. Per tutta la serata fu sempre lui a fare le domande, passando dal tennis all’arte contemporanea, altro argomento del quale è decisamente più esperto del sottoscritto: mi parlò con grande competenza di arte americana, spiegandomi di essere un collezionista e di aver posseduto per un lungo periodo una galleria molto alla moda. Poi mi presentò la seconda moglie Patty Smyth, una cantante rock gentile e affabile, la quale per tutta la serata guardò entrambi con tono materno.
Ammetto di essere stato un fan fazioso e scatenato di McEnroe, e come tale detestavo con tutte le mie forze i suoi rivali: il freddo Bjorn Borg, innanzitutto, dal quale aveva ereditato il trono dopo scontri leggendari; Jimmy Connors che rivaleggiava con lui in spavalderia e tracotanza; Vitas Gerulaitis, suo compagno di baldoria nelle notti newyorkesi, Mats Wilander, impeccabile e noiosissimo, e soprattutto Ivan Lendl, il suo rivale più acerrimo, rispetto al quale era come l’acqua con l’olio. Non riuscii mai a perdonargli di aver rimontato a McEnroe due set, e poi vinto l’incredibile finale del Roland Garros del 1984. A mio modo di vedere Lendl aveva l’esprit de geometrie, mentre per me McEnroe raffigurava la rappresentazione assoluta, nel tennis, dell’esprit de finesse. Una volta ne discussi con David Foster Wallace, il quale riconosceva la superiorità artistica di McEnroe su Lendl, ma trovava in Roger Federer una sintesi perfetta dei due modi di interpretare il tennis.
Aveva ragione, e come sempre parlava di tennis con la stessa competenza e passione che riservava alla letteratura, esaltando il rovescio del campione svizzero e ancor più la sua classe e compostezza. Ed è vero che Federer ha vinto più di ogni altro campione, e forse solo Rod Laver è al suo livello, ma nessuno ha saputo entusiasmare, irritare e turbare come John McEnroe. Il Mozart del tennis sul campo era geniale e folle, arrogante e spiritoso, greve e leggero. Ed era assolutamente inimitabile, a cominciare dal modo in cui giocava le volée basse e le battute, che eseguiva con una torsione impressionante. Alcuni suoi atteggiamenti sono stati imperdonabili, lo so, come quando definì un giornalista sieropositivo «fruit», uno dei più disgustosi insulti omofobi.
Alcune tirate contro gli arbitri erano spettacolo nello spettacolo, e rimarranno nella storia dello sport, come l’urlo «you can’t be serious», inaudito sul campo di Wimbledon, e poi ribadito con insolenza a voce ancora più alta: «You cannot be serious, man!». La frase diventò in seguito il titolo della sua autobiografia, in cui confessa di non aver mai superato lo shock della sconfitta a Parigi con Lendl, e poi racconta, con sorprendente autoironia, trionfi e delusioni, pubbliche e private.
Mac, così lo definivano i giornali, è stato celebrato, detestato, espulso, invocato: ha diviso il pubblico come capita spesso ai più grandi, ma anche i suoi detrattori si sono dovuti inchinare alla sua classe. Sommando i titoli conquistati nel doppio, dove formava una coppia straordinaria con Peter Fleming, ha vinto persino più titoli di Federer, 145, e tuttora il record di 82 vittorie su 85 match nel 1984 rimane imbattuto, senza parlare delle 3 vittorie a Wimbledon, le 4 agli US Open, le 5 in Coppa Davis e i 3 Master.
Come dice il suo cognome, e come lui stesso ricorda con orgoglio, è di origine irlandese: il nonno paterno era della contea di Cavan, quello materno di Westmeath. Ma lui è nato in Germania, a Wiesbaden, dove il padre, che porta il tuo stesso nome, era stazionato per l’esercito americano. È cresciuto nel quartiere di Queens, a New York, dove ha iniziato a giocare a tennis sin da bambino insieme al fratello Patrick il quale è diventato a sua volta un discreto giocatore. A 18 anni vinse il doppio misto a Wimbledon insieme a Mary Carillo, e, partendo dalle qualificazioni, riuscì a raggiungere le semifinali, qualcosa di assolutamente inedito. Perse con Jimmy Connors, inaugurando una rivalità che si protrasse per 35 incontri, nei quali ha prevalso 24 volte. Ma il momento più memorabile di quel primo torneo di Wimbledon avvenne nei quarti, quando sfidò un veterano come Phil Dent. Di fronte agli scoppi d’ira e alle infinite proteste per ogni punto dubbio, il tennista australiano lo derise con il termine junior, e McEnroe replicò incenerendolo con lo sguardo e poi giocando con la determinazione di umiliarlo: non gli lasciò più conquistare un game. Il Daily Express lo definì «Superbrat» (Super-discolo, ndr) e sin da allora il suo carisma è tale che diventano leggendarie perfino le sconfitte, come quella con Lendl al Roland Garros e la prima finale giocata a Wimbledon contro Bjorn Borg: c’è anche un film che l’ha immortalata, con Shia La Beouf nei suoi panni. Ed è di pochi anni fa un libro che si chiama Facing McEnroe, in cui sono intervistati 50 giocatori che hanno avuto in sorte di sfidarlo: nella storia dello sport soltanto Mohammed Alì ha avuto un simile onore.
La sua passione inguaribile per il tennis è confermata da come gioca tuttora nei tornei seniores e dalla competenza con cui è diventato uno dei più seguiti commentatori televisivi. Tuttavia, a differenza di molti altri campioni, ha diversificato la propria attività recitando saltuariamente in alcuni film, e avviando una serie di attività filantropiche. È stata proprio la passione per il cinema che l’ha fatto innamorare di Tatum O’Neal: sono stati sposati per otto anni e hanno avuto tre figli, ai quali si aggiungono i due avuti con Patty Smyth. «Tutti amano il successo» mi disse nel finale del nostro primo incontro, «ma nello stesso tempo tutti odiano le persone di successo». Fu l’unico momento in cui un leggero velo di cupezza comparve sul suo viso. Ma fu un attimo: scoppiò in una risata, e poi, quasi a giustificarsi per non aver dialogato troppo, aggiunse una battuta che gli ho sentito ripetere più volte: «Io lascio parlare la racchetta».