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 2020  settembre 29 Martedì calendario

Pennacchi vuole tornare allo Strega. Intervista

Sembra un pugile sceso da un ring che ha appena fatto in tempo a rimettersi in testa la coppola dalla quale non si separa mai. Antonio Pennacchi dice di essere stremato dopo i cinque anni passati a scrivere il nuovo romanzo, La strada del mare (Mondadori), ma poi tira fuori l’energia del combattente e ci porta in giro per Latina mostrandoci i luoghi dei suoi libri, mentre la città si popola di fantasmi letterari. Il garage Ruspi che Mussolini aveva comprato a un’amante ferrarese «intorno al quale appare ancora Claretta gelosa che spera di beccarli insieme», la casa dell’infanzia, la chiesa di San Marco, il Palazzo M «dove venivamo a scuola » e la palestra di pugilato dove Accio, alter ego dell’autore, si allenava. Imbocchiamo infine la strada che porta al mare, la cui costruzione in pieno boom economico è al centro dell’ultimo romanzo. Siamo al quarto volume della saga sul clan dei Peruzzi, la famiglia di coloni arrivati dal Polesine nella palude all’epoca della bonifica fascista. Pennacchi pare voglia continuare: «Ho in mente altri due romanzi». Con lui ci sono la moglie Ivana e la nipotina Asia che non si scompongono ai suoi borbottii e lo guardano con affetto.
Pennacchi come sta?
«Pressione alta e labirintite. Dopo ogni libro vado in depressione e penso me so’ stufato de campa ’. Il primo infarto l’ho avuto in treno, andavo a Parma a presentare Mammut . Ero un operaio e ho subito pensato: se muoio chissà quanto costo a Ivana per il trasporto a Roma».
Perché vive la scrittura con tanto agonismo?
«Scrivere è il mio daimon , la mia condanna, il mio Super-Io. La scrittura è il mio inferno ma senza non so stare. È lavoro, fatica. Mi misuro con mio padre che ha scavato il Canale Mussolini. Aveva il culto del lavoro, sapeva che non si imbrogliano i clienti, che bisogna sempre puntare al meglio. Sono abituato così, ho lavorato in fabbrica per 30 anni, turni notturni alla Fulgorcavi. Confesso però che questo è stato il libro più doloroso perché affronta l’infanzia».
Un periodo che ha lasciato ferite?
«Mia madre mi picchiava almeno due volte al giorno ma voleva che ci migliorassimo, che studiassimo. La vita dell’uomo è uno scontro tra natura e cultura. Nasciamo scimmie e poi andiamo alla ricerca della consapevolezza. La cultura è un lavoro costante di riflessione.
Arrivato a 70 anni continuo a studiare e più vado avanti più aumentano i dubbi. Oggi però so quello che non voglio».
E cosa non vuole?
«Le diseguaglianze. Le ingiustizie mi fanno arrabbiare come una bestia.
Morirò incazzato».
È vero che ha conosciuto sua moglie durante uno sciopero?
«C’era un picchetto davanti a una fabbrica di mobili e materassi e Ivana si è buttata davanti a un camion per fermarlo».
A questo punto interviene Ivana sorridendo. «Lui non c’era, gliel’hanno raccontato. Era già un romanziere».
Siete andati sempre d’accordo?
«Spesso mi ha detto "basta, domani vado dall’avvocato". Vorrei scrivere un libro su noi due, ma lei non vuole». Ivana è divertita. «Meglio di no», dice. E ricorda una delle fasi più dure, quando Pennacchi, già over 40, studiava per la tesi. «Non c’era mai e io stavo a casa con i figli, ma l’ho spronato, avevo capito che non era un semplice operaio».
I figli hanno sofferto la sua assenza?
«Quando ho finito il primo libro, mia figlia Marta, che allora aveva 16 anni, mi ha detto: va bene papà, ma Baricco scrive meglio di te. Era proprio una carogna ( sorride ). Ora invece è protettiva, non vuole che vada in televisione a litigare».
Cosa pensano dei suoi libri?
«Non mi hanno mai preso troppo sul serio. Erano cresciuti col padre operaio e si ritrovavano un padre scrittore. Mi danno però consigli. Gli leggo brani dai libri mentre vado scrivendoli per vedere se funzionano. È quello che in fabbrica si chiama "controllo di qualità"».
E loro intervengono?
«Porca miseria!
Prima li leggevo ai miei compagni di fabbrica e agli amici al bar. Ora sono quasi tutti morti. Troppi anni esposti all’amianto».
Nei suoi libri la famiglia è il centro di tutto.
C’è poco spazio per gli amori passionali, li considera un lusso?
«Perlopiù nel ciclo dei Peruzzi canto l’amore coniugale, le coppie. L’amore si costruisce, bisogna saperlo coltivare anche quando la passione s’indebolisce.
Non so perché invece il mio analista vorrebbe che scrivessi un libro di sesso. Ma che senso ha? Di sesso ce n’è in giro a volontà. C’è YouPorn, non ce n’è bisogno. Preferisco riscoprire i sentimenti delle cose. La scrittura come dice Francesco De Sanctis deve cercare il vero».
È evidente nei suoi romanzi il lavoro di documentazione.
«Se dovessi progettare impianti di riscaldamento dovrei mettermi prima a studiare per capire come si fa. Con i libri è la stessa cosa».
Arriviamo intanto al lago di Fogliano e Pennacchi rallenta: «Giri la testa a sinistra, lo vede il lago, è qui che Jacqueline Kennedy viene presa dalla sindrome di Stendhal e si innamora del paesaggio di Latina. È pure il posto dove si erano uccisi nel film e innamorati per la vita Annie Girardot e Renato Salvatori in Rocco e i suoi fratelli di Visconti». L’episodio è ne La strada del mare.
Eccoci infine di fronte a Canale Mussolini.
«È il nostro fiume sacro, il canale che dà vita all’agro. Durante la guerra c’erano gli americani da una parte e i repubblichini dall’altra. Noi da bambini ci facevamo il bagno, ancora oggi i ragazzi ci vengono a fare i picnic».
Parteciperebbe di nuovo al premio Strega?
«Ci vorrei tornare. Veronesi sì e io no? Che so’ più stronzo».