«Un ristorante senza profitto è solo un hobby». Parola di Joe Bastianich, che nel mondo della ristorazione ha sempre vissuto: da bambino, quando nel retrobottega del locale di famiglia, il Buonavia, faceva i compiti seduto sulle scatole di pomodori pelati, da ragazzo quando aiutava a scaricare le casse di vino e dava una mano in sala, da adulto come restaurant manager e da personaggio televisivo, come giudice di MasterChef. Ma, per quanto si possa amare l’arte dell’accoglienza e offrire al pubblico una cucina d’eccellenza, sentenzia: «Se non si guadagna non è un lavoro, ma un passatempo». E lui, titolare di 15 ristoranti negli Usa, non a caso si definisce «un imprenditore, un ristoratore, uno piuttosto bravo a fare soldi».
La cosa curiosa è però che questo talento nel guadagnare, affermato con fierezza tutta americana, si rivela non tanto come passione per il denaro — Bastianich è noto come persona molto generosa — quanto per la capacità di potercela fare.
E per farcela ha seguito sia le orme di sua madre Lidia, chef che negli States ha creato un vero e proprio impero tra locali, linee di salse e trasmissioni in cui insegna al pubblico la cucina italiana; sia quelle del padre, Felice, un vero self-made man, arrivato da ragazzo negli Stati Uniti con zero soldi in tasca ma con le idee chiarissime, che lo hanno portato a incarnare il sogno americano. «Papà non aveva un locale trendy o sofisticato — racconta Bastianich — e non ci provava neanche a essere alla moda. Semplicemente, serviva buon cibo a prezzi convenienti e seguendo le sue regole ha avuto successo». Oggi quelle sue 21 regole sono raccolte nel libro Le regole per il successo — Il metodo Bastianich
(Mondadori), in libreria dal 6 ottobre, un vero e proprio corso di formazione, con dritte per emergere, che sono poi le indicazioni sempreverdi «di un immigrato istriano proprietario di un ristorante italiano a conduzione familiare con 60 coperti nel Queens, ancora oggi validissime nella vita e degli affari».
Che rapporto ha con il denaro?
«Mio padre sognava, non so perché, che diventassi dentista, ma dopo la laurea in scienze politiche, economia e filosofia, ho cominciato subito a lavorare a Wall Street. Mi sentivo arrivato: ero nei palazzi della finanza dove mi sarei lasciato alle spalle il duro lavoro nel ristorante di famiglia, che a quei tempi non era un lavoro “figo”, era considerato umile. Vedevo mio padre concentrato a risparmiare ogni centesimo. Eppure, a poco a poco ho cominciato a sentirne la mancanza. Ce l’avevo nel sangue. E quando mi sono messo in proprio, l’abilità degli affari era un modo per dirmi che era la scelta giusta».
Lei è un produttore di vino. Che era anche un chiodo fisso di suo papà Felice da un punto di vista degli affari. Nel libro gli dedica più capitoli. Sono utili anche per i clienti?
«Sì, una delle regole sacre di mio padre era che in una bottiglia ci sono 4 bicchieri. Come dire: non bisogna essere spilorci col vino.
Alcuni ristoratori credono, vendendo la bottiglia al calice, di poterne fare 6 o addirittura 8. Ma da cliente mi chiedo: se il ristoratore è stato tirchio col vino, su cos’altro sta risparmiando? Non c’è niente di più sgradevole che pagare il conto per avere meno di quello che ti aspetti».
Da cosa ancora si può valutare un ristoratore?
«Dal menu. È un manifesto, una dichiarazione di intenti, è il codice di Hammurabi, è la Magna Carta. Se il menu è sporco, bisogna andarsene subito. È la prima impressione, il biglietto da visita. È la vetrina di quel che c’è in cucina.
Allo stesso modo, se contiene errori o è caotico. Se è difficile da leggere e serve una laurea in semiotica avanzata per capirlo, rimettiti la giacca e vattene. Chi lo compone deve essere attento, conciso, comprensibile».
Insomma, il locale deve essere pulito e chiaro e accogliente, certo. Ma anche generoso. Su che cosa si guadagna allora?
«Qui entra in ballo il businessman .
Un grande guadagno per i ristoranti sono i contorni e dessert: una porzione di cime di rapa a 6-8 euro costa a un ristorante qualcosa come 50 centesimi, più un paio di minuti per saltarli in padella. Certo, deve essere materia prima di qualità. Ma è chiaro che i contorni e i dessert, che hanno un food cost molto basso, hanno molto margine. Se sei un cliente furbo non ordini il dolce. Non si può certo risparmiare sulla carne e sul pesce, ma su contorni e dessert ci sono grandi margini di guadagno».
Sono regole per il successo di un ristorante, ma com’è la situazione post lockdown?
«In America è diverso che in Italia, la situazione è ancora più complicata. I locali sono ancora chiusi e, a seconda della città, lo saranno ancora fino a novembre.
Ho tutti i miei 8 ristoranti chiusi da 7 mesi e ho tutto il personale a casa.
A novembre potrei aprire, ma in base alle regole solo al 25 per cento.
Ma con i costi di New York o di Los Angeles, l’impresa non è sostenibile. Due o tre non riapriranno più. Ma ci sono anche segnali positivi, per esempio aprirò due spazi nuovi, L’Antico Vinaio a New York e Los Angeles, con proposte più semplici, prodotti di grande qualità, mostrando attenzione al sociale e alla sostenibilità».