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 2020  settembre 29 Martedì calendario

L’inchiesta sulle violenze della polizia in carcere

Schiene sfregiate, detenuti in ginocchio, contusioni. Il 6 aprile si è consumato un episodio di inaudita violenza nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Una galleria degli orrori. «Ci hanno distrutti», dice un ex detenuto che chiede di rimanere anonimo. Ora, da uomo libero, ricostruisce i fatti di quelle ore. La sua testimonianza degli abusi agghiaccianti trova conferma nei video che hanno ripreso le violenze. Si tratta di documenti che permettono di scrivere la verità su quella giornata e di raccontare il pestaggio ai danni di decine di detenuti da parte di un contingente speciale composto da circa trecento poliziotti penitenziari. Dopo le prime denunce dei detenuti e le repliche del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, su questa vicenda è calato il silenzio, interrotto solo lo scorso 11 giugno, con un decreto di perquisizione nei confronti di 57 agenti della polizia penitenziaria. Perquisizione che ha scatenato le reazioni della politica.


L’arrivo di Matteo Salvini
«Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati, visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è, oggi è una giornata di lutto». Il leader della Lega, Matteo Salvini, davanti alla casa circondariale aveva commentato così il provvedimento della procura di Santa Maria Capua Vetere, guidata dal magistrato Maria Antonietta Troncone, che ordinava di perquisire alcuni agenti e il sequestro dei loro telefoni. Quello che Salvini non sapeva allora è che proprio nelle registrazioni video del sistema di sorveglianza ci sono le immagini dei pestaggi. La conferma degli abusi. Gli operatori carcerari sono indagati per tortura, violenza privata e abuso di autorità per quanto accaduto quel giorno. È stato terremoto anche istituzionale, perché proprio nel giorno della perquisizione gli agenti della polizia penitenziaria sono saliti sui tetti per protestare contro l’azione portata avanti da altre forze dell’ordine: l’arma dei carabinieri. Lo stato contro lo stato. All’esterno c’era anche Alessandro Milita, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere che è intervenuto personalmente per riportare la calma. La perquisizione ha provocato anche la reazione del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, che ha richiesto una relazione sull’accaduto ai colleghi di Santa Maria e all’arma dei carabinieri. 
Fino a oggi si è parlato di presunti pestaggi. Ma di dubbi ne restano pochi: i video agli atti dell’inchiesta mostrano minuto per minuto l’azione fuori da ogni regola del battaglione di agenti. Gli indagati sono circa un centinaio, e la perquisizione serviva a ricostruire quanto accaduto nel giorno delle violenze.
L’ex detenuto che ha accettato di raccontare quelle ore sotto assedio si trovava nel padiglione Nilo. È lui a confermarci l’esistenza delle immagini che provano le violenze. «Mi hanno interrogato, qualche mese fa, e mi hanno mostrato i video, in quelle immagini mi sono rivisto, ho rivissuto quel giorno», dice. Poi aggiunge: «Mi creda, non ho mai preso così tanti colpi, manganellate e botte in vita mia e non avevamo fatto nulla».
Dalle proteste al giorno del pestaggioA marzo c’erano state diverse proteste nelle carceri a causa delle restrizioni previste per l’emergenza del Covid-19, con quattordici detenuti morti per intossicazioni da metadone e psicofarmaci sottratti negli ambulatori durante le rivolte. La situazione si è aggravata a causa della gestione del Dap, guidato dal magistrato Francesco Basentini, che poi si è dimesso in seguito alle polemiche per la scarcerazione molti boss mafiosi. 
Al carcere di Santa Maria Capua Vetere detenuti e guardie penitenziarie, all’inizio della pandemia, non avevano neanche le mascherine. Una prima protesta all’inizio di marzo si era risolta senza conseguenze. Qualche settimana più tardi ai detenuti è arrivata una notizia. Alla sezione Tamigi, quella dei reclusi con reati associativi, si è scoperto il primo caso di contagio da Covid-19, cosa che ha rinfocolato la paura e le protesta.
Si arriva così al 6 aprile quando in carcere arriva il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, che parla con una rappresentanza dei detenuti. «Gli abbiamo detto che avevamo paura, paura di morire», dice l’ex detenuto. Ma nel primo pomeriggio entra il contingente di trecento uomini per quella che viene presentata come una perquisizione straordinaria. Arrivano agenti anche dagli altri istituti di pena campani. «All’improvviso abbiamo sentito passi pesanti, abbiamo visto dalle finestre decine e decine di poliziotti, quasi tutti a volto coperto, avanzare verso il nostro padiglione, il Nilo, da lì a poco l’inferno». I poliziotti entrano. «Aprono una cella alla volta. Entrano nella mia e dicono “avete fatto la protesta?” e giù manganellate, botte. Ci hanno devastato». In cella il testimone era con altri tre detenuti. «Mi hanno fatto spogliare, e mentre mi abbassavo i pantaloni sono arrivati gli schiaffi, i calci». In quel momento si sentivano le urla provenienti dalle altre celle: ad alcuni detenuti sono state tagliate le barbe: «È stata un’umiliazione». Quello che stava accadendo nelle celle, però, era solo l’inizio. «Nel corridoio c’erano poliziotti a destra e sinistra, al nostro passaggio partivano con calci, pugni, manganellate, fino al piano terra». I video confermano questo racconto. C’erano guardie penitenziarie nell’intero padiglione Nilo, arrivavano fino al piazzale dove i detenuti fanno l’ora d’aria. Ogni cella, che contiene in media quattro detenuti, è stata aperta e i reclusi dovevano guadagnarsi l’uscita attraversando il corridoio e le scale.
Detenuti inginocchiati, schiacciati contro il muro, finiti con costole rotte e traumi di ogni genere. «Sono tornato in cella in ginocchio, non riuscivo a stare in piedi», racconta il testimone. Nei giorni successivi, i reclusi hanno comunicato ad avvocati e familiari la brutale azione di cui sono stati vittime, con il supporto dell’associazione Antigone e di Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti della Campania e di Napoli. In decine hanno presentato denuncia. «Chi ha la testa rotta, chi ha perso i denti, mi hanno manganellato ovunque», dice un altro detenuto in lacrime alla moglie. «Ci hanno trasformato in prigionieri. Non ci vedo più, ho l’occhio gonfio».
La procura ha aperto un fascicolo d’inchiesta. Ma per ogni denuncia, articolo o foto uscita in questi mesi è arrivata puntuale la nota del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che chiarisce che gli agenti della polizia penitenziaria non sono armati e in caso di agitazione dei detenuti «l’ordine è quello di contenere. E il contenimento «non prevede mai in alcun caso la violenza». Una nota ormai cancellata dai fatti del 6 aprile, che hanno trasformato il Francesco Uccella in un carcere degli orrori.
[lunedì 28/9/2020]

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«Ricordo che c’era anche un detenuto sulla sedia a rotelle. Anziano e diabetico. Hanno colpito con il manganello anche lui. Di questa violenza c’è il video, l’ho visto». A parlare è l’ex detenuto che, insieme ad altre decine di persone, ha presentato denuncia per i fatti avvenuti, il 6 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il testimone, uscito dal carcere, racconta quanto accaduto e i video che ha visto durante l’interrogatorio al quale è stato sottoposto.
Il 6 aprile scorso, un contingente di trecento agenti della polizia penitenziaria, provenienti da altri istituti di pena, è entrato nell’istituto e ha picchiato i detenuti.
«Le guardie manganellavano quel disabile e gli urlavano: “ti mettiamo il pesce in bocca, non conti nu cazzo qua dentro e neanche fuori”». Il detenuto in sedia a rotelle, legato a un clan perdente della camorra, è stato colpito sulle braccia nonostante la disabilità. Il pestaggio è documentato anche da un video agli atti dell’indagine.
Ci sono anche immagini di reclusi inginocchiati, trascinati, picchiati da quattro, cinque poliziotti. Il testimone ha ricostruito anche la catena di comando e chi c’era quel giorno.


UN DETENUTO MORTO
L’ex detenuto, quando è stato ascoltato dai magistrati della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ha visto un album fotografico per riconoscere gli agenti presenti. «Molti erano coperti dal casco, ma uno di quelli che mi ha picchiato l’ho riconosciuto perché aveva gli occhi chiari, era esagitato e ci sfidava, è quello che ha colpito lo zio, così chiamavano il disabile». Uno degli agenti aveva i guanti rossi, l’hanno ribattezzato «l’animale».
«Picchiava forte, era incontrollabile», dice il testimone. Molti avevano i volti coperti, tranne gli agenti interni. Il testimone ha riconosciuto, per esempio, la commissaria di reparto. «Guardava mentre ci massacravano, ma non interveniva, un ragazzo detenuto di vent’anni mi ha detto “poteva essere mia madre, ma non ha mosso un dito”».
Gli interni erano presenti, ma assenti: «Alcuni ci dicevano “questi sono i fanatici, abbassate la testa e incassate”».
Emergono così altri particolari inquietanti su quella giornata. C’è il caso di un detenuto che viene pestato e, successivamente, messo in isolamento. Era già malato, è morto a inizio maggio, un mese dopo la galleria degli orrori. Quella perquisizione straordinaria era finalizzata anche alla ricerca di oggetti contundenti, presumibilmente usati nelle proteste dei giorni precedenti. E qui si apre un altro capitolo dell’inchiesta, quello cioè relativo a un possibile depistaggio delle indagini subito dopo i fatti.
Quel 6 aprile, come emerso da alcune ricostruzioni a difesa degli agenti, sarebbero stati trovati anche bastoni. «Non è vero», racconta il testimone, «noi non avevamo niente, abbiamo solo subito, sono le classiche “pezze d’appoggio” per giustificare gli abusi, ad alcuni detenuti hanno tagliato le barbe, il massimo dell’umiliazione».
Nei video, ha ricostruito il testimone, si vedono gli stessi detenuti che, il giorno prima, durante la protesta rimettono in ordine le sedie. Nessuna traccia di bastoni. C’è anche un altro episodio, relativo proprio ai video del circuito di sorveglianza, che amplia il capitolo dei possibili falsi.
«Quello che ho notato quando ho visto i video è che non disponevano delle immagini di alcune videocamere, alcune erano spente», dice il testimone. Vista la violenza dell’azione, in molti, tra gli agenti, ritenevano che quel sistema di videosorveglianza fosse spento o comunque neutralizzabile. Il sequestro di tutti i video eseguito dai carabinieri ha vanificato ogni eventuale tentativo.
Quei video sono ora nelle mani dei pubblici ministeri e sono una prova determinante. Sarà la procura di Santa Maria Capua Vetere ad accertare possibili falsi e calunnie, sulla base delle decine di video, ma anche del materiale che proviene dal sequestro dei telefoni di alcuni agenti, eseguito lo scorso giugno.


LA CATENA DI COMANDO
Ma chi ha ordinato quella perquisizione? «Io ho mandato gli uomini di supporto, le perquisizioni vengono disposte dai vertici dell’istituto», spiega Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il direttore del carcere, però, quel giorno non c’era, per problemi di salute.
In carcere c’era il comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, anche lui indagato, e trasferito successivamente in un altro istituto di pena, quello di Secondigliano.
Fullone, che non era presente durante l’irruzione degli agenti, è indagato, ma non vuole rispondere alle domande perché «c’è un’indagine in corso». «Comunque sono sereno, accertare la verità è un bene per tutti», dice. Della perquisizione, precisa Fullone, è stato informato il vertice del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’epoca guidato dal magistrato Francesco Basentini, che non è coinvolto nell’indagine.
«Quelli che picchiavano venivano da fuori, da altri istituti: erano coperti con mascherine, foulard, caschi», dice il testimone. Decine di detenuti hanno riportato traumi di ogni genere, ma subito dopo il pestaggio in carcere i detenuti sono rimasti rinchiusi in cella. «Io non ho potuto chiedere la visita medica, bisognava aspettare, minimo quindici giorni. Un mio amico, al quale hanno spaccato il labbro, non ha potuto neanche denunciare perché è ancora dentro. Nei giorni successivi si è instaurato un regime di silenzio».
La sua testimonianza, come quella di un’altra cinquantina di detenuti, è agli atti dell’indagine. Un’inchiesta giudiziaria che deve appurare le responsabilità della catena di comando, eventuali depistaggi e gli autori che hanno firmato questa pagina degli orrori.
[martedì 2979/2020]