Corriere della Sera, 26 settembre 2020
1QQAFA12 Su "Desideri deviati. Amore e ragione" di Edoardo Albinati (Rizzoli)
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È sempre amore e ragione, ma dove c’erano i cuori ora ci sono i desideri. Il nuovo romanzo di Edoardo Albinati, Desideri deviati, in uscita da Rizzoli martedì 29 settembre, non è il seguito di Cuori fanatici anche se le vicende avvengono a pochi giorni di distanza, quasi in contemporanea. Con il libro pubblicato lo scorso anno, il nuovo condivide qualcosa di più del sottotitolo, Amore e ragione appunto: una progettualità, un’idea unitaria, un’impostazione corale dalla quale emergono alcuni personaggi-ponte, a cominciare da quello che soltanto convenzionalmente può essere considerato il protagonista, Nico Quell, giovane, brillante redattore editoriale.
Dall’io autobiografico de La scuola cattolica, l’imponente romanzo vincitore del premio Strega 2016 dove la vita dell’autore, la temperie politica e culturale, la cronaca simboleggiata dal massacro del Circeo, indagavano le profondità del cuore umano, Albinati prosegue con altri mezzi questa autobiografia della nazione che non ha nulla di sociologico ma è filtrata dai desideri, dalle pulsioni, dalle nevrosi degli uomini.
Qui la protagonista è «la città del nord», una Milano mai nominata ma riconoscibile come lo era la «città del sud» di Cuori fanatici, cioè Roma, principali centri urbani in un Paese chiamato lo Stivale. La Milano di Albinati è una metropoli che prova a uscire dal buio degli anni di piombo, dove il desiderio è alla sua massima potenza perché ancora non sa che cosa desiderare. È la città — non ancora diventata la sventata e arrogante Milano da bere — in cui «il dato concreto confina sempre con l’immaginario», che oscilla tra «la totale praticità e lo spreco sontuoso, tra il realismo più terrestre e il sogno sfrenato, producendo uno sfavillante corto circuito tra buon senso e follia, spirito sanguigno ed etereo, miseria e denaro, sopravvivenza e immortalità, cotechino e cocaina».
È il momento in cui la capitale economica, morale, editoriale diventa anche capitale della moda, con lo sbarco di modelle dal fascino esotico che si mescolano alla mondanità fumosa e superficiale sempre in vendita nei salotti bene. Un breve arco temporale, 1980-81, riconoscibile in modo inequivocabile non da eventi clamorosi, da fatti di cronaca identificabili pur nella finzione, ma attraverso la colonna sonora pop di una festa.
Il mondo dell’editoria, in anni nei quali questa era concentrata quasi esclusivamente a Milano, è in larga parte il set di questo romanzo. Tito Livio Minaudo, l’Editore, che soltanto nel nome può evocare un incrocio tra Garzanti e Einaudi, così come le altre figure hanno lontani e superficiali modelli reali, è il paradigma di un mondo che è l ’unico anello di congiunzione tra la cultura e l’industria. Un mondo «in cui giravano pochi soldi e molto risentimento», in cui non c’era proporzione tra gli sforzi fatti e i risultati ottenuti. Albinati lo racconta con acume e uno stile immaginifico, procedendo spesso per accumulo di dettagli, descrizioni, spiegazioni che hanno il dono di non apparire mai eccessive.
L’editoria appare come il luogo in cui venivano «orditi intrighi, celebrate e disfatte alleanze, combattute battaglie e guerre, distrutte amicizie, sacrificate vite e reputazioni, erano ogni giorno bestemmiati il pudore e la logica, violata la parola data, deformate a proprio vantaggio le più elementari norme di comportamento, la gente si nutriva di invidia e crepava di solitudine, si commettevano infamie sottili e impalpabili ma non per questo meno gravi e dolorose, si respirava un fitto fumo di ipocrisia, il che certamente avviene in tutti i campi, l’industria, la finanza, la politica i giornali e la tv eccetera, le professioni eccetera, ma con la differenza che, nelle Belle Lettere, in ballo c’è ben poco».
Lo scrittore gioca in grande equilibrio sul filo della comicità prendendo a bersaglio macchiette e tic del mondo editoriale (c’è una bellissima, perfida lezione sul mito del «rigore» nello stile), lambisce il grottesco, facendo entrare e uscire di scena i suoi personaggi come attori su un palcoscenico. Nico, già protagonista, insieme all’amico insegnante Vanni, del libro precedente, ragazzo «senza qualità» in senso musiliano, capace di tutto, all’altezza di tutto, ma a cui non succede niente, è in qualche modo svuotato di contenuti propri. Il suo compito narrativo è quello di traghettare storie altrui, cruna dell’ago da dove passano tutti i personaggi: l’editore Minaudo e il deforme direttore editoriale Coboldo, uomo di età indefinibile, piccolo, storto, con occhi enormi, «due palle celesti grosse come quelle dei gatti in una terrificante fiaba di Hans Christian Andersen»; la modella Sheila B., misteriosa amazzone sbarcata per un servizio di «modelle nere sulla neve»; Irene, l’instabile sorella riemersa da un passato famigliare drammatico; i Macchi, ambigua coppia di architetti di grido al centro della mondanità; Quadratino, il figlio dell’Editore, geniale freak; il «precettore» Chirone, che a Nico ha fatto da maestro quando era un bambino malato. Lo ritroverà, anni dopo, guru paralitico tra gli occupanti del Fabbricone, un edificio industriale abbandonato.
Albinati riunisce la maggior parte dei personaggi in una scena centrale, la serata mondana a casa dei Macchi, la coppia diabolica, «abilissima nel creare occasioni in cui gli invitati si sentissero lusingati dalla presenza di altri invitati che potevano supporre più importanti di loro, più ricchi di loro o ancora più alla moda». Il party,che sembra avere la funzione del ballo nel romanzo ottocentesco di Jane Austen o di Tolstoj, centrifuga e disperde conversazioni che mescolano tutti gli argomenti, tutti gli umori in un’unica frase ininterrotta, come l’infinito prologo a un argomento che non si arriva mai a trattare: la torta di zucchine, i russi a Kabul, il Milan, se sia peggio l’Inquisizione spagnola o la Gestapo, l’ultimo libro dell’ultimo giapponese di moda.
Anche questo, come il precedente, è un romanzo di parole, di quadri che si succedono, di atmosfere dove il movimento non sempre coincide con l’azione. Si parla molto, eppure sembra sempre che qualcosa stia per accedere. Ed effettivamente qualcosa succede: lo sgombero del Fabbricone, colpi di arma da fuoco, mentre in una parte di esso si prepara una sfilata. Ma anche movimenti interiori, il più significativo dei quali coinvolge il brutto, sgraziato, scontroso, puro, asociale Coboldo, che nello scorrere delle pagine viene trasformato dal desiderio «deviato» da Nico. È lui che gli presenta Sheila, la sua ragazza. Lo gnomo deforme e l’amazzone nera finiranno con il comporre il meno giudizioso degli accoppiamenti possibili, per citare un titolo gaddiano cui non si può non pensare leggendo questo libro. Ed è al Coboldo che Albinati affida la domanda fondamentale: «Quale prezzo dovrò pagare per questa felicità?».