Affari&Finanza, 28 settembre 2020
Le banche con le carte truccate
La lezione dei subprime e i 450 miliardi di dollari multe pagati dalla finanza mondiale dopo lo scandalo delle “obbligazioni tossiche” sono serviti a poco: le autorità di sorveglianza hanno provato a stringere i controlli, le banche hanno promesso di rafforzare il monitoraggio interno, ma a 12 anni dal crac Lehman il credito fatica a liberarsi dei suoi fantasmi. Le cronache degli ultimi giorni parlano da sole: JpMorgan Chase, Hsbc, Standard Chartered, Deutsche Bank e Bank of New York Mellon – secondo un’inchiesta del Consorzio internazionale di giornalisti investigativi – avrebbero autorizzato fino al 2017 almeno 2mila miliardi di transazioni sospette che sarebbero servite a pulire i soldi del narcotraffico e degli oligarchi. L’australiana Westpac è stata multata per 923 milioni per aver violato 23 milioni di volte le normative anti-riciclaggio, chiudendo un occhio su transazioni per 7 miliardi e trattando con “indifferenza” persino i movimenti di denaro di alcuni pedofili. Paletti più stretti, controlli, ispezioni, l’uso di algoritmi e intelligenza artificiale di sorveglianza sul sistema bancario sembrano funzionare solo a metà. E ad ammetterlo a mezza voce sono persino gli stessi “controllori": “Le normative della Ue andrebbero rafforzate per eliminare le vulnerabilità legate ai differenti approcci delle autorità nazionali e ai buchi nelle difese continentali contro il denaro sporco e il finanziamento ai terroristi”, ha scritto nei giorni scorsi l’European banking association nelle sue raccomandazioni a Bruxelles in vista del dibattito per rafforzare i controlli sul credito. Un allarme che potrebbe portare presto, su iniziativa della Commissione, alla nascita di una stanza dei bottoni unica in Europa per combattere il riciclaggio. La storia degli scandali inanellati dal settore creditizio dopo la catarsi dei subprime fotografa bene i limiti delle misure di sorveglianza delle banche.
Carte truccate
Generalizzare e fare di tutta l’erba un fascio, ovviamente, è un errore. Ma dal mercato dei cambi a quello dei tassi di interesse, dagli scandali sulle commissioni ai clienti fino alle connivenze con dittatori e trafficanti di droga, chi ha provato a barare truccando le carte è riuscito spesso a farla franca a lungo. E le centinaia di miliardi multe arrivate dalle Authority non si sono rivelate un deterrente sufficiente. Bank of America ha pagato dal 2008 ben 76 miliardi di sanzioni, ma è riuscita a mettere insieme nello stesso periodo ben 143 miliardi di profitti. Jp Morgan ha staccato un assegno di 43 miliardi per chiudere i conti con gli errori del passato. Un salasso? Mica tanto, se è vero che – nonostante l’esborso-monstre – non ha mai chiuso un bilancio in rosso dal 2008 macinando in dodici anni 226 miliardi di profitti. E i 450 miliardi di multe imposti dalle Autorità di controllo dal 2008 ad oggi impallidiscono davanti ai 233 miliardi di dollari guadagnati nel 2019 solamente dalle banche Usa.
Una collana di scandali
Deutsche Bank è un’altra prova provata dell’inefficacia del sistema sanzionatorio per evitare recidive: il colosso tedesco ha transato per 7,2 miliardi il suo coinvolgimento nei subprime. Una lezione servita a poco visto che poi ha dovuto sborsarne altri 600 per il suo coinvolgimento in operazioni di investment banking in Russia e altri 725 per chiudere l’inchiesta per manipolazione dei prezzi dell’Euribor e 150 per i suoi legami con il finanziere Jeffrey Epstein. La svizzera Ubs, già costretta ad aprire il portafoglio in passato per le questioni del fixing dei prezzi su mercato valutario e sui tassi di interesse, è stata condannata in Francia a pagare 3,7 miliardi per aver aiutato i suoi clienti transalpini a evadere le tasse, meccanismo per cui ha accettato di versare 111 milioni anche all’Agenzia delle entrate in Italia. E pochi mesi fa – ad abundantiam – è stata bacchettata da Hong Kong per il caro-commissioni. Il buco più inquietante della sorveglianza bancaria in un mondo sempre più integrato è quello del riciclaggio del denaro sporco. Nei primi sei mesi del 2020 le Autorità hanno già approvato multe per 700 milioni, quasi il doppio di quelle del 2019 e tutte comminate per gli stessi problemi evidenziati ormai dal 2015 in materia di controlli. Le super-sanzioni del passato – come i 9 miliardi patteggiati da Bnp negli Usa per la violazione delle sanzioni a Iran, Cuba e Sudan e i 900 milioni pagati da Ing – non hanno arginato il fenomeno. Come dimostra la genesi dei maggiori scandali scoppiati negli ultimi tre anni, sfuggiti per parecchio tempo ai radar della vigilanza. La filiale estone della danese Den Danske Bank ha gestito tra il 2008 e il 2015 transazioni sospette per oltre 200 miliardi dietro cui, secondo le accuse, si nasconderebbe il riciclaggio delle ricchezze di molti oligarchi russi e dell’Est europeo. Probabilmente il più grande caso della storia di ripulitura di capitali illegali. I macroscopici volumi delle transazioni in una singola filiale avrebbero dovuto accendere la spia dell’allarme da subito. Invece le autorità bancarie di Copenhagen e di Tallinn, responsabili entrambe (in teoria) della supervisione di questa agenzia, hanno sottovalutato a lungo queste anomalie, salvo poi rinfacciarsi la responsabilità quando è scoppiato il bubbone.
Da Ginevra a Kuala Lumpur
I controlli hanno funzionato poco o niente anche nel caso del fondo sovrano malese 1Mdb, uno scandalo che ha coinvolto anche i vertici della politica di Kuala Lumpur e ha portato a una maxi-multa da 3,9 miliardi per la Goldman Sachs e allo scioglimento della Bsi – la più antica banca del Canton Ticino – con le Generali, all’epoca proprietarie dell’istituto, costrette a garantire un rimborso di 245 milioni di franchi svizzeri ai brasiliani di Btg Pactual, che avevano acquistato la società. E in Australia ci sono voluti anni per scoprire – con annessa maxi-sanzione – che National Australia Bank, Cba e Anz applicavano applicato commissioni stellari ai clienti, prelevandole persino dai conti di persone decedute. Un caso a parte è il buco di Wirecard, la società di pagamenti digitali tedeschi travolta dallo scandalo per la scoperta di un buco di quasi 2 miliardi di capitali nel suo bilancio, una sorta di Parmalat teutonica. Le prime accuse sulle irregolarità del gruppo sono arrivate da un’inchiesta giornalistica del “Financial Times”. Nessuno le ha prese sul serio. I revisori dei conti hanno snobbato gli articoli di stampa e non si sono accorti della truffa, la Bafin – l’Autorità di controllo finanziaria di Francoforte – è arrivata addirittura a chiedere una censura sugli autori degli articoli. I conflitti di competenze tra la stessa Bafin, la Bce e l’European Banking association hanno impedito di scoprire il buco. “Il crollo di Wirecard solleva questioni serie non solo sulla corporate governance dell’azienda e sui revisori, ma anche sulla gestione delle informazioni finanziarie da parte dei controllori”, ha ammesso il vice presidente della Commissione Valdis Dombrovskis.
Di lavoro da fare, in effetti, ce n’è molto. Il primo obiettivo è provare a far parlare con una voce sola e senza sovrapposizioni le autorità di controllo. Compito delicato vista la delicatezza a livello geo-politico del controllo del settore bancario. Poi bisogna iniziare da subito a guardare avanti. Facebook sta studiando la sua criptovaluta, lo stesso stanno facendo alcuni Stati. Il fintech e la digitalizzazione dei pagamenti stanno riscrivendo tutte le regole del sistema. E il rischio degli 007 incaricati di tenere sotto controllo il settore bancario è di riuscire a chiudere un’altra volta la stalla dopo che i buoi sono già scappati.