la Repubblica, 28 settembre 2020
3QQAFA10 Sulla raccolta dei racconti di Javier Marías
3QQAFA10
Javier Marías è nato a Madrid nel 1951. Anni fa, su Repubblica, ho recensito un suo capolavoro, o quasi un capolavoro: Domani nella battaglia pensa a me. Il nuovo, splendido libro, uscito in questi giorni, è diviso spiritosamente in due parti: Racconti accettati e Racconti accettabili, alcuni dei quali hanno il piglio di un vero romanzo – barocchi, romanzeschi, estrosi, eccessivi, stralunati. Una frase di questi racconti venne scritta per essere letta ad alta voce, davanti a una immensa folla, nella fastosa Basilica di Massenzio. Altri racconti, Javier Marías li ha abbandonati nella più completa oscurità: nell’ombra assoluta, come se non esistessero.
Sostiene – ma mente – di lavorare esclusivamente su commissione. Ma è falso. Pochissimi racconti sono più fastosi ed eccentrici di quelli di Javier Marías, che è, probabilmente, il più raro di tutti gli scrittori europei, inclusi quelli inglesi. Come Gualta, un personaggio, è forse «pedante, eccessivamente compito, arrogante nei giudizi, movimentato nel gesto, tronfio del suo carisma, sfacciato, esagerato nelle opinioni, vagabondo e senza scrupoli negli affari». Può darsi (anzi è quasi certo) che egli insegua due verità completamente opposte: in apparenza, Marías non può fare a meno dell’eccesso e dell’esagerato. Ignora la linea retta. Anzi la detesta. Tutto ciò che è essenziale gli fa orrore. Ciò che è breve gli sembra spaventoso. Ha un modello: l’immenso Don Chisciotte e le sue stupende ripetizioni; e Madrid e Toledo, che saccheggia da tutte le tele del Seicento. Non potrebbe essere più minuzioso. Non potrebbe coltivare di più la possibilità e l’eventualità. Non potrebbe essere più vagabondo e adorare la chiacchiera, la vasta, immensa chiacchiera che riempie di sé il mondo.
La realtà la dimentica volentieri. Preferisce il fantasma, l’eccesso, l’assurdo, l’eventuale: sopratutto scavare, scavare e scavare, non nel rêve, ma nell’immenso sonno che è la sua abitazione preferita. Non fa che dormire. Se ama qualcosa è William Wilson, o Jekyll oppure Hyde. Riflette se stesso nei suoi personaggi. Eccolo diventare Gualta che parla, si muove, gesticola, fa pause, ride, si pulisce la bocca col tovagliolo e si gratta il naso. Teme che esista un altro: esattamente identico a lui: teme che in ogni ambito della vita e in ogni singolo momento del giorno, costui pensi, faccia e dica esattamente le stesse cose che dice lui. Dunque è un doppio. Pensava: «Ogni cosa che faccio, ogni pensiero che compio, ogni mano che stringo, ogni frase che dico, ogni lettera che detto, ogni idea che ho, ogni bacio che do a mia moglie, lo starò facendo, compiendo, stringendo, dettando, avendo, dando a Gualta, che è il mio vero doppio». Ma qual è il doppio? E chi è l’autentico?
Non gli restava che modificare il suo aspetto: si lasciò crescere i baffi ed evitò di portare il cappello, sostituendolo con un elegante foulard: fumava sigarette inglesi; coprendo la sua testa stempiata con finti capelli giapponesi. Smise di servire il vino alle signore; e di aiutarle a indossare il cappotto. Ogni tanto – chissà perché – diceva qualche parola: parola assurda, eccentrica, sbagliata, svagata. Cercò di diventare affettuoso, lezioso, formale. Iniziò ad arrivare tardi e andar via troppo tardi dall’ufficio, a dire volgarità alle sue segretarie, a notare qualunque sciocchezza. Insultava spesso le persone alle sue dipendenze, con parole minime ma enormi. E si mise ad insultare in pubblico, davanti a tutti, proprio Lui, il Papa, che sino allora aveva sempre venerato: il Papa che era il suo Sosia, il suo vero Doppio. Non viveva che di sosia e di doppi e di papi.
Scriveva di continuo lettere, ma esse sembravano scritte da qualcuno che fosse già morto da molto tempo quando lui le scriveva. Di continuo, di continuo, si domandava se non era morto: oppure così finito e falso e sbagliato da essere o sembrare morto. Pensò che tutto il mondo era completamente morto: tutto: dichiarazioni, promesse, esigenze, veemenze, ombra ed oscenità – tutto era completamente convenzionale, appunto perché era morto. Leggeva oppure fingeva di leggere: Salmagundi di William Faulkner, che non era stato più pubblicato, o J acob’s room di Virginia Woolf, che da un antiquario costava duemila sterline o Watt di Beckett, che valeva addirittura cinquantamila sterline.
Gli capitò un incidente: rimase rinchiuso per mezz’ora nell’ascensore di un grattacielo, fra il venticinquesimo e il ventiseiesimo piano. Questa giustificatissima sensazione di claustrofobia e di angoscia lo fece gridare, e poi chiacchierare col signore con il quale condivideva quella mezz’ora di timore. Era un uomo dall’aspetto molto limitato e di una estrema circospezione: in una situazione così angosciosa, sembrava un maggiordomo. Cominciò a passeggiare. Dovette balbettare in italiano, come aveva fatto a lungo; ed era stufo di non potersi esprimere correttamente in nessuna forma.
Cominciò a viaggiare con un suo amico italiano: nel giro di nove mesi visitarono Bali, la Malesia e la Thailandia: il suo amico si ammalò di un morbo conosciuto, e il suo caso destò tale interesse tra i medici dell’ospedale, che chiamarono a consulta il medico della Regina. Poi andò con la moglie a Siviglia: a Siviglia si affacciò al balcone dell’albergo e guardava la gente che passava, com’era vestita, come parlava o pensava nel tempo del Don Chisciotte. Guardava senza vedere. La Domenica delle Palme, quasi tutti i suoi amici avevano lasciato Madrid, e lui se ne andò all’Ippodromo. Durante la seconda corsa, un tale che era alla sua sinistra urtò involontariamente il proprio gomito con il suo, mentre si portava agli occhi il binocolo per vedere la dirittura d’arrivo. Il binocolo cadde a terra: una delle lenti si ruppe; e il binocolo rimase a terra, completamente inutile e vano.
A un certo punto fu posseduto dall’idea di ricordare tutto, anche quello che non sapeva: l’idea di sapere tutto, quel che ci riguarda, di cui siamo stati al centro o soltanto al margine. Vide con chiarezza assoluta visi che aveva incrociato una volta sola per la strada: un uomo sul tram: un uomo che lo osservava sulla metropolitana e che non era più capace di ricordare: un fattorino gli consegnò un telegramma senza alcuna importanza. Ricordò i lunghi minuti passati in attesa sugli aeroporti o a guardare l’acqua, finché gettò la valigia nell’acqua.
All’improvviso diventò un fantasma, un vero fantasma e rimase certamente un fantasma in tutti questi racconti, che ha scritto con l’estro squisito ed elegante dei fantasmi. Poi, di nuovo, si accusò di essere morto: era morto e sapeva benissimo di essere morto. Non riusciva a dimenticare di essere un fantasma. Allora per disperazione, si mise a tradurre l’Anatomia della malinconia di Burton e alla fine, spossato, avvilito, riuscì a tradurre settecento pagine, mentre il resto aspettava ancora che qualcuno si dedicasse a completare l’opera. Smise di raccontare. Si mise a rimuginare: rimuginava, rimuginava senza fine, come se non avesse mai scritto i suoi mirabili capolavori.