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 2020  settembre 28 Lunedì calendario

Il tribunale speciale di Mussolini

Fu il fallito attentato a Benito Mussolini del 31 ottobre 1926 ad accelerare il processo che portò all’istituzione del Tribunale speciale fascista. Secondo Leonardo Pompeo D’Alessandro – nel libro Giustizia fascista. Storia del Tribunale speciale (1926-1943) pubblicato dalla casa editrice il Mulino – il sedicenne Anteo Zamboni – che a Bologna, nel quarto anniversario della marcia su Roma, provò ad uccidere il Duce (e fu, lui sì, ucciso all’istante) – provocò nella più totale inconsapevolezza l’importante svolta.
Molti nei giorni successivi al gesto si convinsero che quel tentativo di assassinio fosse frutto di una cospirazione più ampia. Furono tratti in arresto i familiari del ragazzo e – come ha ampiamente documentato Brunella Dalla Casa in Attentato al Duce. Le molte storie del caso Zamboni (il Mulino) – qualcuno avanzò il sospetto che fossero coinvolti personaggi vicini a Roberto Farinacci, cioè fascisti intransigenti contrari alla nuova politica mussoliniana da loro considerata non più rivoluzionaria.
La Camera fu convocata a poco più di una settimana dai fatti, il 9 novembre (l’ultima seduta risaliva al 5 giugno): in apertura furono dichiarati decaduti 123 deputati. Con un decreto firmato poche ore prima dal re Vittorio Emanuele III, furono poi presentati all’aula i «Provvedimenti per la difesa dello Stato» che comprendevano l’istituzione del Tribunale speciale e l’introduzione della pena di morte. Tutto fu fatto molto in fretta. Per esaminare il disegno di legge venne istituita una Commissione presieduta da Carlo Del Croix che discusse per meno di un’ora: dalle 17 e 30 alle 18 e 25. Rientrati in aula, i deputati votarono nel tardo pomeriggio di quello stesso 9 novembre 1926: su 353 presenti, a scrutinio palese i voti favorevoli furono 341; i contrari 12 (gli ex combattenti Luigi Gasparotto e Vincenzo Bavaro e altri liberali come Alberto Giovannini, Giuseppe Lanza di Trabia, Marcello Soleri). Poi ci fu un secondo voto, stavolta a scrutinio segreto, e, a sorpresa, i contrari si ridussero a 6. Giovannini nelle sue memorie scrisse che, con ogni probabilità, qualche deputato della superstite opposizione, che in pubblico non voleva apparire arrendevole a Mussolini, in segreto votò a suo favore.
Quindi il provvedimento fu trasmesso al Senato, dove le cose andarono in maniera leggermente diversa. Qui la discussione durò otto giorni, dal 12 al 20 novembre 1926. Il Senato invitò il ministro della Giustizia Alfredo Rocco a rendere esplicito che le norme studiate per colpire comunisti e anarchici non sarebbero state applicate agli «insegnamenti individuali di dottrine liberali e costituzionali», anche qualora, per «contingenze speciali o necessità di pubblica sicurezza», si ritenesse opportuno sciogliere partiti o associazioni che si ispiravano a tali principi. Un anziano e prestigioso senatore, Ettore Pais, pur dichiarando di non nutrire dubbi circa l’approvazione di quella legge, auspicò che essa non avesse una durata superiore ai cinque anni. Il senatore Filippo Crispolti sostenne a sua volta che cinque anni erano fin troppi. Sentendosi chiamato in causa, Mussolini si vide costretto a dare rassicurazioni e si impegnò a che il nuovo tribunale non si trasformasse in uno strumento di «vendetta», bensì, esclusivamente, di «severa giustizia». In Senato i voti furono, nelle proporzioni, diversi da quelli della Camera: su 232 votanti, 183 furono i favorevoli e 49 i contrari. Si decise che i giudici fossero scelti tra i membri della Milizia.
A testimonianza di quella che D’Alessandro definisce «una diffidenza reciproca tra Senato e fascismo» (viva soprattutto tra i fascisti intransigenti), il 21 novembre, giorno successivo all’approvazione dei provvedimenti, sul «Corriere Padano», giornale fondato da Italo Balbo a Ferrara, compare un significativo articolo. Titolo grande in prima pagina: «Sforzi e incertezze di un istituto destinato al tramonto». L’«istituto destinato al tramonto» era, ad ogni evidenza, il Senato. Titolo dell’articolo: «Gente che non ha capito». Quelli che «non avevano capito» erano, con altrettanta evidenza, i senatori. Il pezzo notava come, oltre ai 49 parlamentari contrari, ce ne fossero stati 69 assenti. Ironizzava l’articolista su quei senatori che avevano fatto ricorso al «sistema dello squagliamento». Dopodiché «concedeva» ai contrari nonché agli «squagliati» le «attenuanti che spettano a gente che, per ragioni di età, ha un fatto personale colla morte». Il 1° dicembre del 1926 la rivista quindicinale «Critica fascista» celebrò con un’enfasi che D’Alessandro definisce «eccessiva», la fine del «mondo politico prefascista».
Presidente del Tribunale speciale fu nominato Carlo Sanna (classe 1859), già eletto parlamentare alle elezioni del 1924 nelle liste del Blocco nazionale. Vicepresidente Orlando Freri, che considerò quella designazione alla stregua di una carica onorifica e continuò a fare la spola con Milano, dove svolgeva attività più remunerative. Fino al marzo del 1928, allorché si dimise per non essere più costretto ad andare a Roma. Ma – come ha già messo in evidenza Mimmo Franzinelli nel saggio I l tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943) (Mondadori) – furono più d’uno i giudici dell’appena costituito tribunale speciale che scelsero di restare nelle loro città dove svolgevano attività, definite nelle carte mussoliniane, non senza malignità, «più redditizie». Dei cinque giudici effettivi, sottolinea D’Alessandro, solo uno risiedeva «ordinariamente» a Roma «sebbene anche lui esercitasse la professione di notaio fuori della capitale».
Così i processi andavano a rilento. Come era accaduto per il «caso Zamboni», cosa che provocò l’irritazione di Mussolini e qualche dissapore tra l’avvocato militare Giuseppe Ciardi e il giudice relatore Pietro Lanari. Lanari fu accusato di voler rinviare il processo a tempo indeterminato per conto di Farinacci (Ciardi venne invece rimosso dall’incarico su disposizione del ministro della Guerra). Poi fu allontanato il sostituto Vincenzo Balzano, «reo» di aver ordinato nel giugno del 1927 la scarcerazione dei familiari di Zamboni e provocato con questo una nuova arrabbiatura del Duce. Alla condanna dei familiari di Zamboni (trent’anni di reclusione) si giunse soltanto nel settembre del 1928, dopo che in molti si era formata la convinzione che si fosse trattato di una montatura.
La prima condanna a morte emessa dal Tribunale speciale fu nei confronti di Michele Della Maggiora, fucilato per aver ucciso due fascisti. Anche in questo caso si dovettero superare le perplessità del pubblico ministero (Carlo Baratelli) convinto che non ci fossero i presupposti giuridici per quel genere di condanna. Della Maggiora infatti aveva tolto la vita ai due malcapitati quando era in evidenti condizioni di disagio mentale. Il presidente del tribunale, Guido Cristini, sollevò dall’incarico Baratelli, lo sostituì con un magistrato più accomodante e alla fine Della Maggiora fu mandato a morte. Pablo Dell’Osa – in Il Tribunale speciale e la presidenza di Guido Cristini (1928-1932) (Mursia) – dimostra in modo esaustivo come anche in questa occasione prevalse il desiderio di creare un precedente giuridico che spianasse la strada alle attività del Tribunale speciale.
Ma la determinazione di Cristini non fu sufficiente e tutto continuò ad andare a rilento. Così si scelse la via «più comoda» e «più diretta» di accanirsi contro i comunisti. Rinunciando in partenza alle condanne a morte per le quali mancavano i presupposti, ma trascinando sul banco degli imputati elementi rivoluzionari sulle cui attività sovversive pochi avrebbero avuto da obiettare. Anche in questo caso, però, c’era un precedente imbarazzante: nel 1923 (Mussolini già al potere) i principali dirigenti del Partito comunista erano stati processati e assolti. Qualcuno aveva supposto che si fosse trattato di un atto di insubordinazione della magistratura, Mussolini aveva dovuto correre ai ripari facendo emettere un comunicato (il 27 ottobre 1923) in cui la sentenza veniva definita come «semplicemente intonata a quell’indirizzo di clemenza e a quegli atti di pacificazione» che il regime si era proposto di compiere nella ricorrenza del primo anniversario della marcia su Roma.
Di nuovo, però, fu nell’insieme un grande pasticcio. Dirigenti e militanti comunisti furono processati a decine e condannati. Molti in contumacia, dal momento che gran parte degli appartenenti al Pcd’I (Partito comunista d’Italia) si era data alla macchia. Finirono in carcere Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Altiero Spinelli (quest’ultimo beneficiò di uno sconto di pena in quanto minorenne). Il reato contestato a tutti era gravissimo: coinvolgimento in «fatti diretti a suscitare la guerra civile e a portare la devastazione, il saccheggio e la strage nel Regno». Ma nessuno fu condannato a morte e lo stesso Mussolini si preoccupò di far dare ai giornali un resoconto «succintissimo» per nascondere la circostanza che in ognuno di quei dibattimenti le prove erano scarse e le incongruenze numerose. Sicché si verificò quello che D’Alessandro definisce un «cortocircuito nell’impianto accusatorio». Il pubblico ministero Michele Isgrò, proveniente dalla magistratura ordinaria, chiese pene più severe di quelle poi adottate da giudici militari e consoli della Milizia. Tra l’altro il Partito comunista – come fu costretto ad ammettere il capo della polizia Arturo Bocchini – non era mai stato sciolto con uno specifico provvedimento ministeriale. E il mancato scioglimento ebbe ovviamente un suo peso.
Nel gennaio del 1928 Mussolini si rivolse a Enea Noseda, pubblico ministero presso il Tribunale speciale con una nota quasi offensiva nella quale diceva di non poter «fare a meno di pensare che forse taluno dei dipendenti funzionari non renda quanto è necessario». E in febbraio dispose che sarebbe stata la Presidenza del Consiglio ad interessarsi direttamente delle «pratiche inerenti alla costituzione organica del Tribunale speciale» mentre il ministero dell’Interno (di cui era titolare lo stesso Mussolini) si sarebbe occupato dell’ «andamento dei processi».
Nel marzo del 1928 si passò a quello che inizialmente si voleva evitare, cioè ad un ampio coinvolgimento dei magistrati ordinari. Ma un anno dopo il bilancio fu egualmente poco esaltante: dei cinquemilaquarantasei imputati, contò lo stesso Mussolini, più di quattromila erano stati assolti; dei rimanenti, ben duecentosettantacinque erano stati condannati a pene inferiori a dieci anni, uno solo alla pena capitale. «Duecentotrenta», annunciò poi il Duce, «saranno liberati entro l’anno». «Confrontato coi terrori antichi e contemporanei, quello fascista si scolora», ironizzò Mussolini. Alla fine, dopo diciassette anni di attività, i processi che si conclusero con condanne a morte furono relativamente pochi, 77 (con 62 sentenze eseguite di cui la metà furono contro sloveni e croati).
Numeri in assoluto spaventosi. Assai meno se si pensa alle entità di altri coevi regimi dittatoriali. Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (Edizioni di Comunità) notò «le cifre sorprendentemente basse e la relativa mitezza delle condanne inflitte agli avversari politici» dal fascismo e aggiunse che era «assolutamente inconcepibile» che un tal genere di comportamento giudiziario rientrasse nei canoni di un «regime di terrore totalitario». D’altra parte un grande giurista come Arturo Carlo Jemolo nelle sue memorie — Anni di prova (dato alle stampe da Neri Pozza e recentemente ripubblicato da Passigli) – stigmatizzò che il Tribunale speciale avesse emesso «condanne a venti, quindici, dieci anni con estrema facilità»; ma, aggiunse, era sempre meglio che in Germania e in Russia «dove spesso la gente scompare senza processo e, comunque, le condanne a morte sono irrogate con grande frequenza». Una considerazione che D’Alessandro definisce «sbrigativa». Ma poi lui stesso scrive: «Se mai vi fu una reale capacità rivoluzionaria del fascismo, eversiva del vecchio ordine e in grado di crearne uno nuovo, almeno sul fronte della riforma della giustizia in chiave politica si può dire che essa fallì». Effettivamente non si può dire che l’esperienza del Tribunale speciale mussoliniano sia stata coronata da successo. Per fortuna.