La Lettura, 26 settembre 2020
Tutti i film sugli artisti
Forse è presto per parlare di una moda. Ma, negli ultimi anni, molti registi hanno deciso di raccontare le avventure biografiche di alcune tra le celebrity dell’arte. Tra i titoli usciti dal 2016: Egon Schiele: Death and the Maiden di Dieter Berner (2016); Final Portrait. L’arte di essere amici di Stanley Tucci (2017), su un episodio marginale e dimenticato della vita di Alberto Giacometti; Loving Vincent di Dorota Kobiela e Hugh Welchman (2017); Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel (2018); Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck (2018); Il peccato. Il furore di Michelangelo (2019) di Andrei Konchalovsky; Volevo nascondermi di Giorgio Diritti (2020) su Antonio Ligabue; Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera di Jordan River (2020); Banksy Most Wanted di Seamus Haley, Laurent Richard e Aurélia Rouvier (2020); Paperman di Domenico Zazzara (2020) su James Lake; Gauguin di Edouard Deluc (2017; ora distribuito in Italia). Diretti da cineasti provenienti da culture e indirizzi non contigui, questi film sembrano condividere alcune istanze precise. Si tratta quasi sempre di autentiche fiction, distanti da quei «critofilm» di cui aveva parlato negli anni Cinquanta un grande storico dell’arte come Carlo Ludovico Ragghianti: un originale tipo di critica, che vuole essere «penetrazione, (...) ricostruzione del processo proprio dell’opera d’arte» ed è «realizzata con mezzi cinematografici», con «parole-concetto», con «parole-azione».
Dunque, non film-saggi, ma soprattutto fiction. Ne sono autori registi che non intendono registrare la potenza fabbrile della creazione pittorica (come aveva fatto Henri-Georges Clouzot ne Il mistero Picasso, 1956). Ma tendono a indugiare sull’universo biografico degli artisti, forse memori di quel che aveva sostenuto Ernst Gombrich in apertura della Storia dell’arte raccontata: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti».
Nascono così film che, senza enunciarlo in maniera esplicita, sembrano rilanciare la lezione del padre della critica d’arte, Giorgio Vasari (1511-1574), le cui Vite potrebbero essere lette come un involontario romanzo storico, nel quale si assegna uno spazio centrale alla dimensione esistenziale. Un mosaico di ritratti che, a loro volta, accolgono notizie, vicende. Un pantheon di artisti divini e, insieme, umanissimi. Un kolossal sull’arte del Rinascimento, con affreschi letterari dotati di una mirabile efficacia.
Nel riprendere più o meno consapevolmente questi echi storico-artistici, sorretti da una sensibilità di tipo antropologico, gli autori delle biographical picture — ribattezzate a Hollywood con l’abbreviazione biopic — scelgono come soggetto dei propri film soprattutto le vite brucianti di alcuni artisti maledetti impegnati a varcare le soglie della normalità, per spingersi verso i territori dell’altrove, senza timore di inciampare nel deserto rosso della follia: un altrove geografico, affettivo, psicologico. Ecco, allora, Artemisia Gentileschi, Vincent van Gogh, Schiele, Giacometti, Ligabue e Banksy. Quei «suicidati della società» amati da Antonin Artaud: poeti disperati, solitari e talvolta malvagi, condannati a un destino «funebre e rivoltante», a un’«oscura alchimia».
Sono opere che si richiamano alla tradizione hollywoodiana delle «cinebiografie», le cui vette più alte sono rappresentate da due film tratti dai romanzi monumentali di Irving Stone: Brama di vivere di Vincente Minnelli su Vincent van Gogh (1956) e Il tormento e l’estasi di Carlo Reed su Michelangelo (1965).
Recuperando alcuni artifici propri di quei biopic, i registi dei film sulle vite di artisti usciti negli ultimi anni sembrano porsi su un crinale tra verità e invenzione.
In primo luogo, essi muovono sempre da alcuni episodi veri. Le passioni, gli incroci, le solitudini, i dolori, le inquietudini, le esperienze, le delusioni. Ma anche il mood culturale, familiare e sociale dentro cui gli artisti sono cresciuti e si sono formati. Siamo di fronte a esercizi filmici che vogliono risultare «credibili», fondati su un patto di fiducia con lo spettatore. Ma, forse, siamo di fronte anche a tentativi popolari per fare storia dell’arte ricorrendo agli strumenti propri del cinema.
Alcuni esempi. In Final Portrait il giovane e facoltoso rampollo americano James Lord chiede a Giacometti di essere ritratto, sottoponendosi a lunghe ed estenuanti sedute nell’atelier-antro di Parigi. In Loving Vincent ammiriamo la prodigiosa «ricostruzione», attraverso la tecnica dell’animazione, delle opere di van Gogh e dei set nei quali il grande pittore trascorse la sua vita: le stradine di Arles, i cieli stellati di notte, i campi e le locande. In V an Gogh. Sulla soglia dell’eternità si ritorna sui passaggi decisivi nel viaggio al termine della notte compiuto dal maestro olandese (interpretato da Willem Dafoe): l’incontro con Gauguin, i mesi di Arles, il ricovero nel manicomio di Saint-Rémy, la permanenza ad Auvers, il rapporto viscerale con il fratello Theo, la misteriosa morte. In Volevo nascondermi si racconta l’esistenza infelice e malata di Ligabue (magistralmente incarnato da Elio Germano, infatti premiato alla Berlinale): dalla Svizzera all’Emilia, tra disturbi fisici e psicofisici, solitudini, vergogne, nascondimenti, espulsioni scolastiche, fino al riscatto sociale ed economico legato alla scoperta «istintiva» della pittura e alla creazione di quadri naïf occupati da animali monumentali. Infine, in Gauguin — ultimo arrivato nelle sale – si ripercorre la storia dell’artista post-impressionista (Vincent Cassel): la sapienza nell’accostare in modo ardito i colori, il disagio provato a Parigi, l’insofferenza per i miti della modernità e della civilizzazione, lo sforzo per salvaguardare la purezza interiore, il malessere, la fascinazione per il «buon selvaggio», la fuga verso Tahiti, l’eccitazione per la rinascita, l’amore, la malattia.
Eppure, alcuni registi di biopic non si limitano al rispetto delle fonti documentarie, che trattano come spunti di partenza. Essi vogliono uscire da quei tranelli agiografici nei quali sembrano cadere Tucci in Final Portrait e Deluc in Gauguin. La sfida: riscrivere e riattivare i fatti storici; combinare realismo e arbitrarietà, filologia e lirismo; concepire la verità come un prodotto dell’immaginario, una sorta di «illusione referenziale» (potremmo dire con le parole di Roland Barthes). Questi cineasti si comportano come sceneggiatori intenti a trarre un film da un romanzo, portati a usare il testo scritto come un palinsesto di figure, di ambienti e di azioni, che è possibile tradire, modificare e trasformare, procedendo per condensazioni, per sottrazioni, per tagli, per omissioni e per inserimenti di presenze nuove.
La meta ultima: trascendere ogni documentarismo; portarsi al di là di ogni abbandono al romanzesco e all’aneddotico; risituare momenti effettivamente «accaduti» sul registro di una spettacolarizzazione capace di coinvolgere, di commuovere e di emozionare il pubblico.
È quel che avevano fatto, tra gli altri, Andrej Tarkovskij in Andrej Rublëv (1966), Peter Watkins in Edvard Munch (1974), Jos Stelling in Rembrandt fecit 1669 (1977), Derek Jarman in Caravaggio (1986) e Peter Greenaway in Nightwatching (2007) e in Rembrandt’s J’accuse (2008). Anche a questi modelli «classici» sembrano ispirarsi Schnabel in Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità e Diritti in Volevo nascondermi. Inquadrature di matrice fotografico-pittorica. E disinvolte decostruzioni drammaturgiche: i percorsi biografici e poetici di van Gogh e di Ligabue vengono disarticolati e rimontati, infrangendo ogni linearità narrativa. Si ha la sensazione di «incontrare» vite riassemblate per frammenti, per barlumi, per tagli improvvisi.
Proprio come in alcune opere di Tarkovskij, di Watkins, di Stelling, di Jarman e di Greenaway, in Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità e in Volevo nascondermi accade qualcosa di imprevisto. Assistiamo a uno strano gioco di incroci tra pratiche lontane, governato da registi inclini a ripensare il concetto classico di mimesi, inteso come pratica del transito, rimodulazione delle fonti, operazione vertiginosa; forma di traduzione volta a dischiudere inesplorati orizzonti di senso. Due linguaggi diversi ma affini e complementari trasgrediscono i confini che, storicamente, li hanno disgiunti: si mescolano, si sovrappongono, si confondono. Nei film di Schnabel e di Diritti, il cinema sembra rivaleggiare con la pittura: ne assume soluzioni e stratagemmi; sperimenta una libertà inedita; infine, si concede la possibilità di procedere per «quadri in movimento» dotati di un’inviolabile autonomia formale.
Torna alla memoria quel che disse Steven Spielberg a proposito del suo Lincoln. In un’intervista del 2013, non senza un certo understatement, il regista statunitense confessò di considerare quel biopic non un film biografico, ma «un ritratto del presidente, un dipinto realizzato a partire dalla sua vita».