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 2020  settembre 26 Sabato calendario

QQAN70 Tutti i colori di Van Gogh

QQAN70

Fragile. Handle with care/ Maneggiare con cura. Proprio come bisognerebbe fare (finalmente) con Vincent van Gogh, prototipo universale dell’artista di genio, ma anche di una certa idea d’ispirazione legata all’imprevedibilità, alla solitudine, a una «presunta» pazzia. Questo invitano a fare le parole stampate come un mantra sulle casse modello Turtle (brevetto olandese) che da tutto il mondo stanno trasportando a Padova le opere del pittore in mostra dal 10 ottobre al Centro San Gaetano.
«È la più grande esposizione mai dedicata all’artista in Italia», spiega con orgoglio il curatore Marco Goldin, fresco autore (per La nave di Teseo) anche di Van Gogh. L’autobiografia mai scritta, monumentale percorso che ridisegna, in parallelo con la mostra, l’esistenza del pittore attraverso le sue lettere: quelle indirizzate da Vincent al fratello Theo e quelle che lo stesso Theo e alcuni amici (da Gauguin a Signac) gli hanno nel tempo scritto. Un itinerario caratterizzato da una lunga serie di inediti e di scoperte e da una traduzione finalmente attualizzata. Il motivo? «Dimostrare che Vincent non era pazzo, al massimo potremmo dire che era molto malinconico – precisa Goldin – e che non era nemmeno un ignorante: parlava correntemente quattro lingue e amava molto la poesia del quasi coetaneo Walt Whitman. Insomma il suo talento era molto piu profondo di quanto il successo di cui ha goduto e continua a godere ci abbia finora fatto capire».
Nelle otto sale andrà in scena l’altra faccia di un genio, quella più nascosta, quella che una certa forma di snobismo intellettuale ha fatto a lungo rimanere nell’ombra. Poco meno di cento quadri (96 per la precisione) di cui 82 (tra dipinti e disegni) solo di Vincent van Gogh (1853-1890) «che ha camminato danzando sulla vita, come sul filo mai interrotto di un vulcano – tra lapilli, piccoli falò, notti e stelle – facendo diventare la luce colore, un colore che nessuno mai aveva dipinto così prima e che mai nessuno dipingerà». Poi una serie di opere di artisti che per lui sono stati importanti e che ha frequentato di persona: Gauguin (Vegetazione tropicale / Paesaggio della Martinica, 1887), Millet (Il seminatore, 1847-1848), Seurat (Campo d’erba medica, Saint-Denis, 1884-1885), Signac (Collioure. Il campanile, 1887), Hiroshige (Massaki e il santuario Suijin no mori sul fiume Sumida dalla serie Cento vedute famose di Edo, 1856). È una sequenza di capolavori inebriante, capace di riscaldare persino fisicamente stanze dove tutto quello che fa da contorno ai quadri deve essere sempre e comunque contenuto: 20 gradi di temperatura, 50% di umidità, luci fredde, accessi contingentati e regolati dalle norme sul Covid-19, tempi di visita scanditi anche dalle audioguide. Gli stessi tecnici – gli «accompagnatori» ai quali è affidata la sicurezza e la «salute» delle opere, gli operai che attaccano i quadri alle pareti (tutti con mascherina e guanti) – si muovono come in una sala operatoria: aprendo casse, togliendo involucri di carta bianca, scorrendo armati di lente la superficie di un disegno come i Minatori nella neve (1880) o lo Zappatore (1881) e di un olio su tela come Il seminatore (1888) o il sorprendente Burrone (1889) quasi fosse quella di un corpo umano.
Vedere arrivare, da solo, in una uggiosa mattina di fine settembre il celeberrimo (e tanto atteso) Autoritratto con cappello di feltro grigio del Van Gogh Museum di Amsterdam, realizzato con tutta probabilità nell’autunno del 1887 e che campeggia sulla copertina del catalogo (edito da Linea d’ombra), provoca un’emozione violenta che, come spesso accade con Vincent, fa prevalere il sentimento sulla ragione, l’emozione sulla consapevolezza tecnica che «quella tela è la ripresa di un altro autoritratto con lo stesso cappello, dipinto pochi mesi prima, e che dal confronto si comprende perfettamente quanto fosse progredito nel volgere di così poco tempo». Gettando lo sguardo oltre l’evidente bellezza, l’inaspettato arrivo di cinque «Nature morte» destinate a una mostra prevista per l’autunno in Giappone e poi annullata (tra queste la Natura morta con mele e zucche del 1885 e le Rose e peonie del 1886) permette di capire come «non si tratta di semplici esercizi o esperimenti al solo scopo di modificare, variandola, la sua tavolozza, ma di quadri complessi e audaci, insoliti nella loro forma, colore e soggetti, d’importanza cruciale per l’evoluzione di Vincent van Gogh pittore moderno».
Il lato privato dell’artista riaffiora spesso, con prepotenza. Nulla di strano, ad esempio, che dipingesse fiori, proprio lui che aveva eletto il giardino della canonica di Zundert (fiori compresi) a luogo magico dell’infanzia, lo stesso giardino in cui la madre coltivava una passione che avrebbe trasmesso al figlio. Sono i Fiori in un vaso blu che completano la parete della Sala 5: «Qui la lezione di Seurat è stata assorbita – dice Goldin – ma rimessa in circolo in modo del tutto personale, sempre con la nota insofferenza per le teorie a favore delle cose vive». Aprire queste casse è come aprire un dono di Natale dove il regalo è un altro van Gogh, un van Gogh diverso e più attuale: il (quasi) mistico che voleva salvare la prostituta Sien Hoornik; l’appassionato lettore dei romanzi di Dickens ed Eliot, di Balzac e Michelet e Daudet e della Capanna dello Zio Tom; l’artista che guardava e citava senza paura i suoi modelli, da Corot a Rembrandt.

Dalla formidabile parete della Sala 6 (per Goldin «una parete degna del Met di New York») riemergono con nitidezza e amore «Gli amici di van Gogh ad Arles». Assieme al luogotenente degli Zuavi, Milliet, al quale Vincent impartiva lezioni di disegno, ci sono le due famiglie che tanto hanno contato per lui nella città provenzale. Sono i coniugi Ginoux e due membri della famiglia del cosiddetto postino Roulin, che in realtà faceva lo smistatore della posta alla stazione ferroviaria. I due Ginoux erano i gestori del Café de la Gare, che si trovava accanto all’ingresso della Casa Gialla. E la cosiddetta Arlesiana, qui nella sua versione più famosa (quella della Galleria d’arte moderna di Roma), altri non era che Marie Ginoux, ritratta più volte da van Gogh e anche da Gauguin, legata al pittore olandese dagli stessi problemi di natura malinconica e (nel caso di Marie) anche depressiva. Accanto al suo, il solo ritratto che si conosca del marito, Joseph Ginoux.
Ma è Joseph Roulin, con la sua giubba blu e gli alamari gialli, l’amico più caro di Vincent ad Arles. Questa versione del postino (dalla Kunsthaus di Zurigo) è stata realizzata nei giorni a cavallo tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1888, nemmeno un mese prima del famoso episodio del taglio dell’orecchio, quindi nelle settimane della presenza di Gauguin (quell’incredile giallo sullo sfondo sembra volerlo certificare). Qui il personale, il privato, torna ancora una volta a intrecciarsi con l’arte. Joseph Roulin aveva fatto conoscere a van Gogh tutta la famiglia: la moglie Augustine, all’epoca trentasettenne; il figlio maggiore Armand, diciassette anni, il cui meraviglioso prestito rarissimo dal Folkwang Museum di Essen compare accanto a quello del padre; e poi Camille, undici anni; e Marcelle, nata l’ultimo giorno di luglio di quel 1888. Vincent li ritrae perché li ammira e perché certamente incarnano l’immagine di quella famiglia che egli stesso avrebbe voluto formare.

Certo, il magico Vincent van Gogh appare oggi come un predestinato a quel successo inutilmente inseguito per buona parte della vita: ma l’invito di Goldin è di andare oltre l’apparenza di una maxi-quotazione (nel 1990 da Christie’s il miliardario giapponese Ryoey Saito aveva sborsato 85,2 milioni di dollari per il Ritratto del Dottor Gauchet) o di una celebrazione da star (come il film del 2018 di Julian Schnabel). Per concentrarsi sulla profondità di un personaggio che racconterà così il suo stato d’animo mentre ad Arles sta dipingendo campi di grano: «Il colore qui è veramente bellissimo. Quando il verde è fresco, è un verde ricco come ne vediamo raramente nel nord, un verde distensivo. Quando è rossiccio, coperto di polvere, non diviene per questo sporco, ma il paesaggio assume allora toni dorati di tutte le sfumature: ora verde, ora giallo, ora rosa, ora bronzino, ora ramato, infine giallo limone o giallo scialbo, il giallo di un mucchio di grano battuto, ad esempio. Quanto all’azzurro, va dal blu reale più profondo dell’acqua fino all’azzurro del non ti scordar di me, al cobalto, soprattutto all’azzurro chiaro trasparente, al verde azzurro, all’azzurro viola».
Poco importa allora che quelle casse Turtle siano gialle (il modello più vecchio) o verde acido (quello più recente), poco importa che pesino cento chili, poco importa che arrivino in buona parte dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, con la sua collezione di quadri di van Gogh seconda al mondo (per numero e importanza) solo a quella del Van Gogh Museum. Perché le raccomandazioni (Fragile. Handle with care/ Maneggiare con cura) che compaiono su ogni cassa non sono che l’accorato invito a ritrovare il vero Vincent van Gogh. Non un pazzo, non il genio morto suicida, piuttosto un consapevole eroe dell’arte che in una straziante lettera del 10 settembre 1889 confesserà al fratello Theo: «Mi piace dipingere, vedere gente e cose, e tutto ciò che costituisce la nostra vita, fittizia, se si vuole. Sì, la vera vita potrebbe essere in altro, ma non credo di appartenere a quella categoria di anime che sono pronte a vivere e anche in ogni momento a soffrire».