La Lettura, 26 settembre 2020
Le figurine che svelano i giochi dei Fenici
Il santuario sorgeva sulla collina di Kharayeb, 15 chilometri a nord-est di Tiro. «Quel luogo di culto – spiega l’archeologa Ida Oggiano – ci regala reperti fondamentali per capire alcuni aspetti intimi della vita degli antichi Fenici». Era un tempio dedicato alla maternità. La dea venerata era rappresentata incinta, con le mani a protezione del grembo, una dea mater invocata per la fertilità e la protezione dell’infanzia. Sul piazzale lastricato del tempio andavano in scena canti e balli rituali. Piccoli pilastri di pietra servivano per depositare piatti, ampolle, vasetti in miniatura con offerte di olio o cibo. Ma i doni che rivelano tenerezza e amore verso i figli erano figurine votive di bambini. Formelle d’argilla di 15 centimetri con immagini infantili. Fanciulli festosi. Intenti a suonare uno strumento, impegnati in passi di danza...
In una fossa (favissa) sono venuti alla luce 16.500 pezzi di figurine. Per conto dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr, Oggiano dirige, con Wissam Khalil, gli scavi in Libano. Dice che le «figurine narrano l’evoluzione dei gusti artistici dei Fenici». Circa 3 mila anni fa le realizzavano a mano e mostravano bimbi nudi. Poi da Alessandria d’Egitto, con la quale i Fenici commerciavano, arrivarono le matrici, stampi di terracotta in cui bastava spalmare l’argilla e cuocerla nei forni. Infine, l’influsso dei Greci fece scoprire nuovi canoni estetici: le figurine furono avvolte in tuniche e pepli.
Anche in un angolo delle case fenicie, l’«angolo del culto», facevano bella mostra le figurine. Le donne, custodi della memoria della famiglia, le onoravano bruciando erbe profumate. Il sogno adesso è costruire un mathaf, un museo delle figurine. La regione intorno al tempio ha rivelato un sistema idraulico fatto di varie cisterne intonacate. Tiro aveva alle spalle un apparato produttivo di prim’ordine da cui la città traeva benefici. Agricoltori, pastori, maestri d’ascia che tagliavano i tronchi di cedro, alti 50 metri, lavoravano il legno e lo trasportavano sulla costa per costruire navi e case.
I Fenici erano piccoli gruppi discendenti dalla grande famiglia dei Cananei. Vivevano sull’attuale costa libanese in città come Tiro, Sidone, Byblo, ognuna con un’amministrazione autonoma. Ma avevano in comune lingua e tradizioni. A Byblo è attribuita l’invenzione dell’alfabeto. Il re Zakerbaal forniva ai sacerdoti egizi il legno di cedro per la barca sacra del dio Amon-Ra. Furono i Greci a chiamarli Fenici, i rossi, da phoinix, la porpora, di cui erano abili produttori. «La miglior porpora dell’Asia è a Tiro», scrisse Plinio il Vecchio. Artigiani raffinati, creavano gioielli con pietre preziose, cesellavano oro e argento, lavoravano il vetro. Confezionavano vesti di lino colorate, intagliavano figure mitologiche nelle tavolette di avorio. Il «made in Fenicia» era celebre e molto ambito.
Salomone, re d’Israele, ne aveva grande stima e chiese a Hiram, re di Tiro, di mandargli materiali e una squadra di specialisti. I Fenici salirono fino a Gerusalemme e costruirono il grande tempio biblico. Per Salomone gli uomini di Tiro fabbricarono sul Mar Rosso le navi con le quali aggirarono l’Egitto dei faraoni e raggiunsero la Nubia per mettere le mani sulle miniere d’oro.
Per 400 anni, dal 1200 a.C., i Fenici vissero un periodo felice. Poi gli Assiri cominciarono a tormentarli con la richiesta di tributi. Ma erano anche a caccia di argento perché, in assenza di monete, ogni compravendita avveniva con pezzi d’argento. Se volevano argento, i Fenici glielo avrebbero procurato, trasformando l’oppressione in un’opportunità commerciale. Si lanciarono alla conquista delle miniere d’Occidente. Soprattutto Sardegna e Andalusia, che Pausania descrive come argyròphleps, terre con «vene d’argento».
Nei tempi più antichi pare che il limite dell’ignoto e della paura, il punto invalicabile, fosse lo stretto di Sicilia. Ma i Fenici varcarono impavidi lo stretto e non si fermarono nemmeno davanti alle colonne d’Ercole. Inventori delle triremi con la chiglia di legno di cedro, abili nell’evitare le insidie dei fondali, esperti di venti e stelle (quella polare era detta «stella fenicia»), prendevano nota delle maree e navigavano protetti da uomini armati.
Però le navi e gli equipaggi erano solo un mezzo. Quelli che cambiarono la storia del Mediterraneo furono i commercianti. Viaggiavano sulle navi con i conoscitori di metalli. Individuavano una base ideale sulla costa, aprivano una bottega, primo nucleo di un villaggio. Sposavano donne del posto. In alcune zone della Sardegna nelle vene scorre ancora oggi sangue fenicio. Il loro Dna è simile a quello trovato in antiche tombe in Libano. I commercianti facevano affari con lo smercio di metalli, legno, stoffe, vetro. Si arricchivano con i generi alimentari. Vino, olio, fichi secchi. «Importante – racconta Michele Guirguis, docente all’Università di Sassari – era la caccia ai tonni. Conoscevano le rotte dei tonni e li intercettavano. Nel Sulcis abbiamo trovato le prove: arpioni e reti». Una vera industria. I marinai affettavano i pesci e li sigillavano nelle anfore, subito spedite su nave verso i mercati del Mediterraneo. Ne hanno trovate alcune a Corinto, in Grecia. Navigavano seguendo due rotte, una passava per le isole, Cipro, Creta, Sicilia, Sardegna, Baleari, fino alla Spagna, a Gadir, Cadice; la seconda costeggiava la sponda africana lungo la quale spuntarono Lixus, Utica, Mozia in Sicilia. Mentre Cartagine ha un’origine mitica. Nell’814 a.C. la principessa Elissa (la Didone di Virgilio) partì da Tiro con un gruppo di suoi fedeli e andò a fondare Qart-hadast, la Nuova Tiro.
Facevano affari anche affittando navi ed equipaggi. Nel 580 a.C. li ingaggiò il faraone Necao. Rimasto a corto di oro, non riusciva a pagare il suo esercito di mercenari. Affidò ai Fenici un’impresa che sa di leggenda, circumnavigare l’Africa alla ricerca di metalli preziosi. Partirono dal Mar Rosso e riapparvero dopo tre anni. Raccontarono che a un certo punto «si trovarono il sole a destra»: particolare che fa pensare che davvero scesero al di sotto dell’Equatore. «Le leggende – ritiene Massimo Cultraro, archeologo del Cnr – hanno quasi sempre un fondo di verità».
Anche Cartagine aveva esaurito l’oro per pagare l’esercito composto da un’élite di cavalieri fenici e da truppe mercenarie. Fu inviato l’ammiraglio fenicio Annone alla ricerca di un Eldorado: superò lo stretto di Gibilterra, scese fin giù alle coste del Camerun. Tornò con un carico di oro e argento. Non a caso, i Romani quando distrussero Cartagine trovarono monete d’oro e tesori custoditi nei templi della dea Tanit.