Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 26 Sabato calendario

QQAN690 Il Dna europeo ha tre radici

QQAN690

Nel 2009 il genetista tedesco Johannes Krause trovò sulla sua scrivania un pacco contenente un frammento d’osso umano, una punta di falange. Il pacco arrivava da Novosibirsk, in Russia, mentre il campione era stato rinvenuto da un archeologo, Anatolij Derevjanko, in una grotta sui monti Altaj, nel cuore dell’Asia centrale. Krause – all’epoca un ricercatore del gruppo di Svante Pääbo, uno tra i genetisti più famosi del mondo – sottopose il frammento alle consuete procedure per sequenziare il Dna senza troppo entusiasmo. Pensava di avere tra le mani qualcosa di noto, ma le successive analisi smentirono le sue ipotesi e, mesi dopo, attirarono le attenzioni della stampa mondiale. Infatti, quei resti di falange appartenevano a una giovane femmina vissuta 70 mila anni fa, facente parte di una specie del genere Homo fino ad allora sconosciuta, l’uomo di Denisova.
Quattro anni dopo quella sensazionale scoperta, il Max Planck Institute pose Krause a capo di un nuovo dipartimento, dove si iniziò a studiare una disciplina dal futuro radioso: l’archeogenetica. Polverizzando i resti ossei di antichi esseri umani, i genetisti sono in grado di leggere il Dna di individui vissuti migliaia di anni fa e di ricostruire, mediante il confronto con database e altri dati molecolari, le migrazioni intraprese dalle popolazioni del nostro passato.
Ma la portata rivoluzionaria dell’archeogenetica risiede soprattutto nell’integrazione della genetica con altre discipline, nel lavoro che scienziati in grado di analizzare i geni svolgono al fianco di archeologi, linguisti, persino storici. L’obiettivo di Krause è focalizzare il suo lavoro di ricerca non soltanto sul Paleolitico e sul Neolitico, ma indagare anche tempi più recenti, storici, finora poco studiati perché caratterizzati da un’abbondanza di reperti e testimonianze scritte.
Per illustrare il suo lavoro e i suoi obiettivi, Krause ha scritto un libro, realizzato a quattro mani con un giornalista scientifico che da anni lo affianca nella sua opera divulgativa: Thomas Trappe. Sarebbe però riduttivo etichettare Storia dell’umanità per gente che va di fretta (in Italia esce per il Saggiatore l’8 ottobre, nella traduzione di Silvio Ferraresi) come un testo dedicato soltanto alla mera descrizione di una disciplina in rapida evoluzione. I due autori hanno puntato più in alto, condensando in poco meno di trecento pagine nozioni basilari di genetica, ma anche un vero ritratto dettagliato dell’Europa dell’Olocene – un periodo che inizia pressappoco 12 mila anni fa, con la fine dell’ultima glaciazione – e dei principali eventi migratori che l’hanno interessata nell’arco di migliaia di anni, definendo così il profilo genetico, culturale e linguistico del nostro continente.

A lettura ultimata, il quadro complessivo risulta chiaro e consente di rispondere in modo piuttosto preciso alla seguente domanda: chi siamo (geneticamente) noi europei moderni? Grazie al lavoro svolto dai ricercatori, oggi siamo in grado di affermare che in ogni persona di radici europee è riscontrabile una percentuale variabile di tre componenti, due delle quali sono il risultato di altrettanti intensi fenomeni migratori avvenuti rispettivamente ottomila e cinquemila anni fa.
Alle popolazioni «originarie» di cacciatori-raccoglitori, già presenti sul suolo europeo, se ne mescolarono altre, provenienti da est. Prima arrivarono dall’Anatolia e dal Vicino Oriente, dove il clima mite aveva consentito lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento in quell’area che siamo soliti chiamare «mezzaluna fertile». Nuove conoscenze, utensili e stili di vita si diffusero rapidamente nei luoghi raggiunti da famiglie di contadini e allevatori, dall’Ucraina all’Inghilterra, al punto che la vera «rivoluzione neolitica», vale a dire il passaggio a un mondo sedentario e agricolo, avvenne in Europa in modo assai repentino, assumendo la foggia di una sostituzione culturale.
La seconda ondata migratoria, ancora più intensa di quella precedente, iniziò tre millenni dopo, quando popolazioni provenienti dalle steppe asiatiche, che si muovevano a cavallo e utilizzavano armi assai maneggevoli come l’arco corto, si introdussero nel continente, raggiungendone in seguito con il passare dei secoli quasi tutte le propaggini.
Grazie alle diverse cartine presenti in Storia dell’umanità è possibile afferrare, prima ancora di iniziare la lettura dei capitoli, che i percorsi seguiti dagli uomini neolitici per raggiungere l’Europa sono i medesimi che oggi la politica definisce «punti caldi» e costituiscono lo scenario entro cui si consumano i drammi umani del presente. I Balcani erano, così come lo sono oggi, il percorso più seguito per spostarsi via terra dalla regione anatolica e dal Vicino Oriente verso il cuore dell’Europa, raggiungendo da sud e da est quel corridoio, il corso del Danubio, ben più comodo e sicuro da seguire rispetto ad altri itinerari.
Tuttavia è poco saggio, e troppo comodo, cercare nelle migrazioni di ieri un precedente che ci autorizzi ad agire, in un modo o nell’altro, nei confronti di chi oggi si muove in massa verso l’Europa. I due autori lo sanno bene, per cui chiudono il volume senza la conclusione che ci si sarebbe potuti aspettare dopo quanto raccontato. Krause e Trappe si «limitano» infatti a ribadire che i loro studi confermano una sola verità: e cioè che l’isolamento (termine che è possibile leggere sia in termini scientifici sia traducendolo nella sua accezione politica, vale a dire nella forma del nazionalismo e delle teorie identitarie ad esso connesse) non è altro che un dogma non supportato in alcun modo dalle evidenze scientifiche. Noi europei moderni siamo il risultato genetico di drammatiche ondate migratorie, che si rivelarono determinanti nel modellare il nostro percorso storico, così come lo saranno quelle presenti e future, soprattutto se teniamo presente che il controllo dei confini nazionali non ha ovviamente alcun potere sul genoma di una popolazione.

Infine, è doveroso soffermarsi su altri aspetti che la ricostruzione archeogenetica di Krause mette in luce. La storia del continente europeo, così come quella di tutti gli altri luoghi della Terra, non è una prerogativa esclusivamente umana. Clima, geologia, fauna e flora, batteri e virus non devono restare sullo sfondo, perché il loro ruolo nel plasmare il percorso umano è stato di primo piano.
Abbiamo inventato nuovi stili di vita quando i mutamenti del clima ce lo hanno consentito, abbiamo coltivato determinate varietà vegetali scegliendole da una florida biodiversità e siamo migrati portando con noi agenti patogeni che hanno decimato intere popolazioni, come forse avvenne in concomitanza con la seconda grande migrazione neolitica. Non abbiamo a disposizione resti, oggetti o Dna databili fra 5 mila e 4.800 anni fa: un «buco nero», che potrebbe essere stato causato da una micidiale epidemia di peste. Krause ritiene plausibile la tesi che il morbo all’epoca sia arrivato in Europa dall’Oriente, trasmesso dai cavalli che le popolazioni delle steppe usavano per spostarsi.
In tempi di rapidi cambiamenti climatici, pandemie e crisi demografica, è lecito aspettarsi che le migrazioni non saranno dovute soltanto alla nostra indole atavica di camminatori, quel bipedismo che, come raccontano Guido Barbujani e Andrea Brunelli nel saggio Il giro del mondo in sei milioni di anni (il Mulino, 2018), ha consentito ai nostri lontani progenitori di scendere dagli alberi milioni di anni fa e di iniziare a macinare chilometri sulle loro gambe. La migrazione non è soltanto frutto del nostro libero arbitrio, spesso infatti è forzata, se non obbligata.
Per questo motivo, come sottolineano Valerio Calzolaio e Telmo Pievani nel saggio Libertà di migrare (Einaudi, 2016), oltre a consentire gli spostamenti e gestirli con politiche lungimiranti, sarebbe necessario agire per limitare tutti quei fenomeni, di origine antropica e non solo, che impediscono e impediranno alle popolazioni di restare insediate in un luogo, un diritto fondamentale tanto quanto lo è la libertà di andarsene in cerca di altre terre.