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 2020  settembre 26 Sabato calendario

Storia e sconcezze delle preferenze

Ottenuto lo scopo di tagliare i parlamentari, i grillini si sono dati un nuovo traguardo: metter fine allo sconcio dei “nominati”. Sono quasi trent’anni che non scegliamo i rappresentanti perché vi provvedono i leader costringendoci a votare del cloni, degli sconosciuti che vengono candidati dove nessuno li aveva mai visti prima e mai più si incontreranno dopo essere stati eletti. Nell’immaginario collettivo, questi privilegiati chissà di quali bassezze sono capaci pur di fregiarsi del titolo di “onorevole” e di lucrare un’indennità da 12 mila euro al mese (più benefit). Ma i Cinque stelle, che dell’invidia sociale distillano l’elisir, hanno individuato il rimedio: nella prossima legge elettorale, da riscrivere con il Pd, basta nomine, basta paracadute e basta imposizioni dall’alto. Al loro posto adotteremo le preferenze. Cioè torneremo al sistema che c’era una volta, con il vecchio proporzionale. Si metteva una croce sul simbolo e poi, volendo, era possibile “pescare” 2 o 3 nomi da una lunghissima lista di candidati. Ce n’era per tutti i gusti: intellettuali e operai, calciatori e soubrette, scienziati e tromboni oltre ai soliti politici di professione. Ognuno si ritagliava la scelta su misura. Facile, no? Come scoprire l’acqua calda.
Viene perfino da domandarsi come mai quel sistema fosse stato abbandonato, per quale misteriosa follia ne abbiamo adottato un altro che invece espropria i cittadini a vantaggio dei partiti, i quali ne approfittano per fare carne di porco. Una spiegazione in realtà ci sarebbe, i meno giovani forse se la ricordano: le preferenze vennero abolite per via dei guasti che avevano provocato. Erano diventate una iattura della democrazia italiana, la fonte prima di corruzione, il peccato originale di Tangentopoli. Il loro difetto stava nel manico: sulla carta è bello che un deputato ti chieda il voto, e per guadagnarselo debba mettersi a disposizione degli elettori. Ma nella patria dei furbi, la politica si era trasformata in una fabbrica di raccomandazioni. I posti di sottogoverno facevano gola per distribuire favori. Fior di politici sognavano di guidare le Poste in modo assumere portalettere; oppure la Pubblica istruzione, per trasferire insegnanti; o l’Agricoltura per regalare sussidi e garantirsi la rielezione. Ogni parlamentare, sinistra compresa, praticava il voto di scambio e faceva traffico di influenze. Il democristiano Remo Gaspari riceveva i questuanti in fila sotto il sole, sulla spiaggia di Vasto, con un portaborse accanto che gli raccoglieva i pizzini. Alle elezioni, inutile dire, faceva il pieno. In cambio della preferenza qualcuno saltava la leva, otteneva il posto, vinceva concorsi a discapito dei più bravi. In certe zone, sappiamo dove, la mafia sfruttava le preferenze per farsi rappresentare a Roma.
Non è tutto. Questa macchina del consenso costava un occhio. Farsi eleggere, ancora di più. Per battere la concorrenza, c’erano solo due modi: fare il capolista, privilegio riservato ai leader; oppure promuoversi con ogni mezzo. Totò-La Trippa ci provava con «Vota Antonio, vota Antonio». Altri coprendo le strade di manifesti, spargendo ovunque santini, appendendo striscioni, imbrattando i muri, passando col megafono, comiziando di qua e di là, perfino sorvolando spiagge con gli aeroplani. Alcuni candidati spendevano miliardi di lire, milioni in euro di oggi. Giovanni Spadolini, che amava regalare i suoi libri, ad ogni campagna elettorale doveva vendere un appartamento. Ma lui almeno se lo poteva permettere, altri invece attingevano al finanziamento illecito, ed era diventato col tempo un sistema criminogeno cui nessuno si sottraeva (aveva ragione Bettino Craxi) sebbene non tutti pagarono con Mani Pulite.
Adesso possiamo discutere se la padella fosse meglio della brace. Se conviene tenerci i nominati che non hanno bisogno di sporcarsi le mani, perché in Parlamento ci vanno lo stesso, o tornare alle preferenze, che renderebbero la politica più dispendiosa e assetata di soldi. Con il sistema attuale siamo elettori a metà; rispolverando invece il passato rischieremmo una Tangentopoli permanente. Senza le preferenze, deputati e senatori resterebbero ostaggio dei leader; con le preferenze, si troverebbero nel mirino dei magistrati. Meno liberi in entrambi i casi, e ricattabili. Per questo è strano che, nel chiedere le preferenze, i campioni dell’«onestà-tà-tà» si ritrovino a braccetto con i sopravvissuti della Prima Repubblica, i giustizialisti grillini d’accordo con certi vecchi arnesi democristiani.
Ma allora la morale qual è? Che un sistema elettorale perfetto dev’essere ancora inventato. La preferenza non è il toccasana. Né ci sarà modo per venirne fuori finché resteremo quello che siamo.