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 2020  settembre 27 Domenica calendario

Dalla penna alla cornetta, necrologio degli oggetti

«Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo», scriveva Salvatore Quasimodo nel 1946, di fronte all’orrore della tecnica al servizio della ferocia primordiale, denunciando la»scienza esatta persuasa allo sterminio». Ma potrebbe ancora valere, quest’immagine di una natura umana che di volta in volta si serve di nuovi utensili, si tratti della fionda, della carlinga di un aereo «dalle ali maligne» o di uno smartphone, senza mutare nel profondo? Il sodalizio tra il soggetto e gli oggetti di cui si serve è solo un rapporto strumentale, che non intacca l’essenza del vero e unico protagonista della storia?
È questo il nodo decisivo con cui si confronta Massimo Mantellini, pioniere italiano del web, tra i primi esperti di tecnologia e cultura digitale che dagli anni ’90 studia e scrive di come internet, pc e nuovi device stiano ridisegnando il mondo. Dopo Bassa risoluzione nel 2018, oggi traccia una mappa dei cambiamenti epocali avvenuti sotto i nostri occhi o tra le nostre mani, seguendo la sorte di dieci oggetti d’uso quotidiano che nel volgere di pochi anni ci hanno lasciato. Una mappa che disorienta e apre gli occhi. E che, inevitabilmente, nel suo percorso in dieci stazioni inizia proprio dalla cartografia, dall’antica ambizione di astrarre e trasferire in scala gli spazi terrestri su un supporto maneggevole, anche se un po’scomodo, come le gloriose mappe stradali con cui la famiglia Mantellini negli anni Sessanta partiva dalla Romagna per andare in villeggiatura in Val di Fassa. L’arte di tracciare il percorso con il polpastrello (vietato segnare, anche a matita!) e poi di richiuderle resistendo al vento, seguendo il verso giusto e le consuete piegature e, soprattutto, tenendo lontane le grinfie minacciose dei bambini.
Tutto questo resiste solo nella memoria, lo stupore di Mantellini bambino che all’autogrill guarda l’espositore con le mappe di paesi lontanissimi (la Norvegia!) oggi non ha più la sua ragion d’essere. Ma in fondo anche quelle mappe stradali, che magari ancora resistono nel bagagliaio di qualche nostalgico, erano il prodotto di un’evoluzione inarrestabile, rispondevano a un’esigenza di precisione nell’orientamento che accompagna l’uomo almeno da quando archiviò le mappe medievali. L’ispirazione immaginifica dei cartografi premoderni, infatti, raffigurava l’ubicazione del paradiso terrestre e non badava alle proporzioni. Poi, nel XIV secolo, con oltre un millennio di ritardo, la riscoperta della Geografia di Tolomeo portò a un criterio di razionalizzazione dello spazio di cui ancora oggi ci avvaliamo. E così, un passo dopo l’altro, si arrivò alle mappe su carta e poi a quegli atlanti Michelin che coniugavano un certo grado d’esattezza con un buon carico di umanità, di tracce soggettive sulle cose e di abitudini familiari che oggi ricordiamo con affetto. Tutto ciò, quest’aura umana che aleggiava intorno a quasi ogni strumento, oggi non c’è più: l’arrivo dei navigatori satellitari, di google maps e di street view l’ha spazzata via, facendoci guadagnare in cambio una precisione assoluta. O meglio, quasi assoluta. Il tecnologo e futurologo Mantellini, infatti, apre anche suggestivi squarci sugli sviluppi imminenti che noi utenti/consumatori neppure immaginiamo: quando la guida autonoma si approprierà del controllo dei nostri percorsi, incrociando in modo automatico persino le diverse concezioni etiche sul male minore nelle varie aree del mondo per decidere in pochi istanti (e senza coinvolgere noi passeggeri) il da farsi in caso di incidente stradale (meglio sacrificare la vita di un giovane pedone indiano o di un’indifesa anziana europea?), allora forse persino lo street view che usiamo noi oggi riaffiorerà alla memoria come una dolce madeleine di inizio secolo.
Il punto filosofico più importante del libro è la conferma che all’avvicendarsi di strumenti e tecnologie cambiamo radicalmente anche noi. Il capofamiglia previdente che la sera prima di partire studia il viaggio sulla mappa ben distesa sul tavolo della cucina, non ha più molto a che fare con chi oggi si sposta virtualmente in ogni angolo del pianeta. Persino se si tratta della stessa persona, di un «immigrato digitale». Ce le confermano le altre storie di oggetti perduti narrate da Mantellini. Il telefono Ericsson in bachelite di sua madre, ritrovato durante un trasloco: una silhouette azzurra dal mirabile design nordico, che univa cornetta e rotella dei numeri e che oggi riassume un pezzo della biografia di quella donna del ’900. Nessuno smarthpone oggi potrebbe fare altrettanto. E lo stesso vale per la penna (oggi sostituita dalla tastiera di cui peraltro già si profila il tramonto a causa dei PDA (personal digital assistant) come Alexa. Per le lettere che inseguivano gli amici e gli amanti in capo al mondo, e per le macchine fotografiche, per i giornali, per i dischi (inclusa la meteora CD), per il cielo, come spettacolo naturale che non contempliamo più, e addirittura per il silenzio (lasciamo al lettore il piacere di scoprire perché). Questa la lista degli splendidi oggetti morti, che ci hanno resi orfani e infine donne e uomini diversi.
Ma non è la nostalgia (che pure affiora a tratti) a prevalere. In gioco c’è una questione tecnologica e antropologica. Il mondo, radicalizzando la nozione di Max Weber, si va disincantando. Trionfa il sogno, per dirla con il sociologo tedesco, «di dominare tutte le cose mediante un calcolo razional». Gli oggetti perdono ogni valenza simbolica per lasciar spazio alla funzionalità pura (anche se Steve Jobs, spiega Mantellini, ha intuito che la seconda non può prevalere del tutto sulla prima). Il bisogno di precisione, soddisfatto in misura progressiva dall’apparato scientifico-tecnologico, cancella l’aura affettiva degli oggetti e li deumanizza. L’obsolescenza degli elettrodomestici sostituiti da modelli sempre più aggiornati è una storia ormai nota. Ma oggi si aggiunge la cancellazione dell’ultima traccia del soggetto nell’oggetto: il possesso, quel poter guardare un telefono, una radio, un’auto comprata risparmiando sulle spese o una bicicletta regalata dai genitori, e poter dire «è la mia». L’economia dello sharing e l’imminente Internet of things che renderà gli oggetti quotidiani delle interfacce con server e centrali tecnologiche a noi ignote, libereranno le cose dal controllo umano in modo irreversibile, ne molleranno gli ormeggi rimuovendone così il marchio affettivo che fino a pochi anni fa ancora le segnava facendone, a loro volta, segni della nostra presenza nel mondo.
Il soggetto, dal canto suo, non esce indenne da una simile metamorfosi: infinitamente più leggero e più capace di raggiungere obbiettivi prima impensabili, la sua identità personale un tempo ancorata agli oggetti di riferimento ora si snoda come un racconto frammentario, veloce, inafferrabile. Il mondo tecnologizzato di oggi non si impone certo con la fredda e asettica oggettività della «gabbia d’acciaio» di Max Weber. Il disincantamento avviene anzi attraverso la seducente modalità della «personalizzazione». Il più chiaro esempio è costituito dai social network, costruiti intorno all’io singolare, alle sue idiosincrasie, alle sue passioni più intime e volubili: nessun ordine ferreo, insomma, si impone sul soggetto-funzionario delle tecnica descritto da Heidegger quasi un secolo fa.
Rimane però da chiedersi: questo soggetto ideale del XXI secolo, svincolato dalle cose, leggero e nomade, cosmopolita, sradicato e libero di cambiare assecondando le proprie voglie a ogni istante (quando se lo può permettere), è ancora un vero soggetto? O piuttosto, la trasformazione che ha sepolto il mondo di ieri non avrà forse travolto anche lui, rendendo la sua soggettività null’altro che la maschera ingannevole e anacronistica di un essere sempre pensante e senziente, certo, e tuttavia ridotto a cosa tra le cose?