Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2020
Il lockdown ha rafforzato le menti più sane
Molto è stato scritto e dibattuto in questi mesi circa le problematiche biologiche e clinico-assistenziali correlate alla pandemia dovuta all’infezione da SARS-CoV-2. Minore attenzione hanno invece ricevuto le questioni psicosociali conseguenti sia a un «disastro» inatteso, come la pandemia, al quale nessuno era preparato, sia al lockdown che ne è seguito. Il distanziamento (che va correttamente definito come «fisico» e non «sociale») resosi necessario in questi mesi rappresenta una forma di vita «innaturale», che confligge con il bisogno radicato di connessione e di legami sociali.
Tuttavia, l’isolamento, imposto dal lockdown, è una condizione ben diversa dalla solitudine: la solitudine è la condizione soggettiva di chi non percepisce legami sociali in maniera soddisfacente, mentre l’isolamento è caratterizzato da una mancanza oggettiva di interazioni sociali. Ci si può sentire isolati ma non soli, e ci si può sentire soli anche all’interno di una folla! La disponibilità odierna di molteplici mezzi di comunicazione (smartphone, videoconferenze, ecc) ha agito da robusto meccanismo protettivo rispetto al rischio di trasformare l’isolamento (causato dal distanziamento fisico) in solitudine.
Numerose sono le ricerche condotte in questi mesi in campioni della popolazione generale per stimare la prevalenza e le caratteristiche di varie forme di malessere psichico, o di veri e propri disturbi mentali, quali depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, ecc. In tempi eccezionalmente brevi sono state pubblicate quattro meta-analisi che hanno preso in esame decine di studi condotti a livello internazionale (alcuni nel nostro paese), quasi tutti basati sulla somministrazione di questionari online: essi sembrano dimostrare che la percentuale di coloro che riferivano, a partire da febbraio 2020, disparate forme di malessere psichico era molto elevata, raggiungendo e superando il 40% delle persone esaminate.
La quasi totalità di queste ricerche presenta tuttavia limiti metodologici che devono indurre alla cautela: coloro che rispondono ad un questionario online, inviato per mail o pubblicizzato attraverso i media, possono rappresentare un campione di popolazione autoselezionato proprio a causa di una condizione di malessere (chi sta male può essere maggiormente propenso a rispondere); inoltre la semplice autosomministrazione di un questionario online non può in alcun caso consentire diagnosi attendibili. Infine, l’assenza quasi totale di valutazioni precedenti non consente di stabilire se il malessere riferito esisteva già prima dell’insorgenza della pandemia (nel qual caso non è possibile ascriverlo all’evento) o se è sorto solo dopo l’inizio di Covid.
Un gruppo diretto da Andreas Reif, Direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Francoforte, ha studiato un campione di persone valutate ripetutamente nel corso del tempo (Longitudinal Resilience Assessment, LORA a partire dal 2017). Iniziato il lockdown, gli autori hanno cercato di valutare le conseguenze della pandemia in 523 partecipanti al progetto in buona salute, somministrando a essi dei questionari settimanali aggiuntivi riguardanti varie aree del funzionamento psichico. In questo campione, nelle 8 settimane studiate, era possibile identificare tre gruppi: un gruppo, largamente maggioritario (84%), ha mantenuto o migliorato la propria «salute mentale», un secondo gruppo, pari a circa l’8% del campione, ha mostrato un forte malessere iniziale, aumentato fino alla terza settimana e tornato poi a livelli normali, mentre un terzo gruppo (dagli autori definito come particolarmente vulnerabile, e comprendente l’8% del campione) ha invece presentato un deterioramento significativo delle proprie condizioni psichiche a partire dalla quarta settimana in poi. Un evento come la pandemia, con il lockdown e tutte le misure di contenimento adottate, ha quindi effetti molto diversi su persone mentalmente sane.
I risultati dello studio LORA concordano con quelli ottenuti in studi condotti su popolazioni esposte a gravi eventi traumatici: in questi gruppi non si assiste necessariamente a un aumento di condizioni di marcato malessere psicologico, o addirittura di disturbi mentali manifesti, con la sola eccezione dei disturbi post-traumatici da stress. A far male non è la «quantità» di stress a cui si è esposti, bensì il modo in cui esso viene processato mentalmente (mind-set). Situazioni stressanti possono rafforzarci psicologicamente (la cosiddetta «stress-related growth») e riorientare i nostri rapporti (a partire da quelli familiari) verso nuove priorità e atteggiamenti più positivi. Le capacità di resilienza psicologica, al pari di quella biologica, sono maggiori di quanto si sospetta: e gli sforzi dei vari livelli istituzionali dovrebbero andare nella direzione di un rafforzamento della resilienza individuale, indirizzando interventi specifici a gruppi di popolazione particolarmente vulnerabili, anche per cause indirette (si pensi ad esempio alla disoccupazione provocata da un disastro come la pandemia, che può rappresentare l’origine di varie forme di malessere psichico, a prescindere dall’evento in questione).
Ricerche recenti hanno anche mostrato una correlazione tra la quantità di tempo trascorsa in contatto con vari tipi di mass-media (TV, social media, giornali, ecc) durante la pandemia e condizioni di malessere psichico: essere esposti cumulativamente a notizie, racconti, descrizioni (veri, parzialmente veri o falsi) di un evento stressante aumenta il rischio di soffrire emotivamente. Le autorità di sanità pubblica dovrebbero quindi mettere in guardia la cittadinanza da un’eccessiva esposizione alle notizie veicolate dai media circa la pandemia.