Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2020
L’«espansionismo» della Corte Costituzionale
Ancora una volta la Corte costituzionale ha eletto un presidente effimero, per tre mesi. La scelta è stata spiegata con il solito argomento metafisico della collegialità, come se il presidente non assegnasse da solo le cause, e come se i giudici non scrivessero da soli le motivazioni (poi passate a una “lettura” collegiale).
Ciò produce danni alla Corte, che si delegittima, e al Paese, che ha avrebbe bisogno di un duraturo e autorevole presidente della Corte, capace di correggere le più vistose storture del sistema costituzionale, anche per non lasciare il presidente della Repubblica solo in questo compito.
Esempio vivente di quella schizofrenia che colpisce non solo gli umani, ma anche le istituzioni, la Corte, pur così attaccata al piccolo mondo antico dei suoi riti interni, ha mostrato, a partire dal 2011 e in particolare dal 2014, un insolito attivismo, espandendo il suo sindacato. Si può dire che più debole diveniva il sistema politico-costituzionale, più si rafforzava la Corte.
Su questo non previsto sviluppo ha scritto ora una lucida, ben calibrata e accurata analisi la studiosa bolognese Diletta Tega. Allontanandosi dalla tradizione costituzionale del commento, Tega mette in prospettiva storica fenomeni singolarmente molto discussi, ma mai esaminati insieme e mai messi nel contesto della fase storica che stiamo vivendo. Mi riferisco al sindacato sulle leggi elettorali, alla disciplina degli effetti nel tempo delle sentenze, al sindacato sulle fonti secondarie, all’accettazione del ricorso di singoli parlamentari, ai passi avanti in materia di autodichia, all’introduzione dell’istituto degli “amici curiae”, al minore ricorso alle inammissibilità, al controllo della intrinseca irragionevolezza delle leggi, al controllo di costituzionalità di norme che sono anche sospette di illegittimità comunitaria, all’estensione del controllo di costituzionalità delle leggi che invadono le competenze delle regioni. Questa espansione del controllo di costituzionalità – afferma Tega – si deve a fattori di natura varia: disinteresse del legislatore per il seguito delle sentenze, disordine legislativo, crisi del controllo incidentale, espansione dell’attività delle corti sopranazionali.
Fondato sull’analisi di sentenze, dichiarazioni dei presidenti e dei giudici, relazioni a seminari della Corte, comunicati stampa, questa analisi, limpida nelle partizioni, è anche il frutto dell’attività svolta all’interno della Corte dall’autrice, come “assistente”, negli anni 2011- 2014. Ne risulta finalmente uno studio non sull’asettico diritto, ma su un diritto immerso nella storia (anzi, tra le pagine 65 e 94, si può leggere una ministoria della Corte e di come ha conquistato, difeso e allargato la sua legittimazione, sempre in bilico tra il fare troppo e troppo poco).
Questo libro, che attraversa coraggiosamente un campo tanto arato dai commentatori, ma lo presenta finalmente in una sintesi dotata di una robusta chiave storica, non piacerà certamente a coloro per i quali i protagonisti del sistema costituzionale farebbero bene a porsi “al riparo”, come se non fossero essi stessi il riparo, ripropone il perenne interrogativo della giustizia costituzionale: quanto avanti deve essa andare nel controllare la legislazione e il funzionamento dell’intero sistema costituzionale, senza sconfinare nel governo dei giudici.
Qui sta la saggezza dei giudici, nel non superare quella sottile linea d’ombra, ma anche nel non rimanere prigionieri dei precedenti (se questi bastassero, non basterebbe interrogarli attraverso una macchina, come si fa in certe corti americane, facendo a meno della Corte?). È certo una singolarità del nostro sistema costituzionale la circostanza che il presidente della Repubblica debba ricordare al Parlamento i principi fissati dalla giurisprudenza costituzionale, come se la Corte non avesse una sua propria voce.