Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2020
Tutte le lettere (adulatorie) tra Proust e Montesquiou
Quando Marcel Proust e Robert de Montesquiou si incontrarono, nel 1893, a separarli non era solo una distanza di sedici anni. Proust era un ignoto giovanotto e Montesquiou una figura leggendaria in cui l’arte e la vita sembravano inestricabilmente fuse. Prima ancora di ispirare autori come Huysmans, Rostand e D’Annunzio, aveva vissuto e continuava a vivere come un personaggio da romanzo. Alto, bello e aristocratico, aveva incarnato un nuovo modello di dandysmo, lontano da quello più appariscente di Oscar Wilde. «Sembro un levriero col cappotto». Nel ritratto di Boldini contempla fieramente il bastone da passeggio col manico di porcellana azzurra, l’unica nota di colore nella frivola austerità della sua tenuta bianca, grigia e nera. Pur essendo un poeta di un certo talento, pronto a soccorrere artisti in difficoltà come Verlaine, veniva sottovalutato per la sua ostentata frivolezza e per la sua alterigia.
Quest’edizione è molto utile perché raccoglie, nell’intelligente cura di Massino Carloni, oltre a tutte le lettere e al saggio di una delle rare amiche di Montesquiou, Elisabeth de Gramont, anche una serie di articoli incensatori di Proust, i passaggi della “ricerca” inerenti al conte e le vendicative pagine su Proust delle sue memorie.
Nella prima di una lunga serie di lettere intarsiate del falso splendore dell’adulazione, Proust cercava cautamente di farsi invitare nella celebre dimora del dandy. Era nota l’irascibilità del conte, la frequenza con cui una parola sbagliata bastava a scatenare le sue ire. Dietro l’infinita pazienza con cui il futuro scrittore sopportava le sfuriate e i capricci del dandy si nascondeva la pazienza del collezionista alle prese con un esemplare particolarmente difficile da catturare. Niente riusciva a smuoverlo, nemmeno la volta in cui Montesquiou gli aveva mandato indietro le sue lettere con a lato, nella sua magnifica grafia, “cacca” o “pipì”. Inutilmente Proust l’aveva ritratto nel modo più lusinghiero nel suo primo libro, I piaceri e i giorni.
«L’arredamento» proclamava il conte «è uno stato d’animo». Anche per gli incensatori più impegnati, come Proust, era difficile non deludere le aspettative di quel burbero dandy che trascinava il visitatore davanti ai pezzi migliori delle sue collezioni, esaltandoli e intenerendosi. Per un attimo sembrava che si calmasse, ma subito dopo gemeva: «È proprio bello!... Com’è bello!». Ogni oggetto era frutto di una meditata scelta. Persino i suoi bagni erano memorabili. Nel suo primo appartamento il turchese della maiolica delle pareti preludeva a quello della vasca smaltata. La luce, filtrata da una vetrata in tinta, lasciava vedere l’elefantino lapislazzuli dalla cui proboscide cadevano due getti d’acqua. Niente in confronto alla toilette successiva, la stanza delle ortensie, in cui la vasca era stata sostituita da un immane vassoio persiano, alimentato da un gigantesco bollitore orientale di rame martellato. Ovunque, ripetuta da Emile Gallé in infiniti motivi e materiali, regnava l’ortensia, il fiore preferito di Montesquiou.
Ma quando Proust gli mandò un lussureggiante vaso di ortensie, l’altro gli rispose rabbiosamente di averlo regalato a una tomba che lo ringraziava e lo salutava. Dietro quella reazione si celava il timore di vedere riconosciuta un’omosessualità accuratamente nascosta. Malgrado molti lo sapessero, Montesquiou era sempre pronto a sfidare a duello chiunque lanciasse delle insinuazioni. Ben presto il conte si accorse che l’amicizia con quel giovanotto non si sarebbe trasformata in qualcosa di più. Come se non bastasse, malgrado il suo accecante egocentrismo e le infinite cautele di Proust, il conte aveva intuito l’immensa intelligenza del giovane interlocutore. Solo l’incalcolabile valore da lui attribuito al suo alto lignaggio e al suo dandysmo avevano attutito lo choc di quella scoperta. Il conte rimase ferito dalla gloria tardiva, ma per lui inesplicabile di Proust. «Vorrei anche io un po’ di gloria. Basterebbe solo che mi chiamassi Montesproust».
In effetti, osserva Gramont, più, ma io direi oltre che un modello, il conte era stato per Proust una specie di maestro. Ma quando si insegna a un genio ogni insegnamento viene immediatamente trasfigurato e sublimato. Il che non impediva a Montesquiou di tormentarsi riconoscendo nella Ricerca del tempo perduto non pochi dei suoi tic e dei suoi inediti punti di vista.