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 2020  settembre 27 Domenica calendario

Così Leonardo si «isplemerebbe»

Tra i fogli dedicati alle ricerche anatomiche, oggi conservati nella collezione di Windsor, ce n’è uno in cui Leonardo da Vinci descrive il funzionamento della lingua. Il suo interesse è per i muscoli che ne determinano il movimento, ma – come spesso accade – la sua mente lo porta ad allargare lo sguardo altrove. «Considera bene – scrive – come, mediante il moto della lingua, coll’aiuto delli labbri e denti, la pronunziazione di tutti i nomi delle cose ci son note, e li vocaboli semplici e composti d’un linguaggio pervengano alli nostri orecchi mediante tale istrumento. Li quali, se tutti li effetti di natura avessino nome, s’astenderebbono inverso lo infinito, insieme colle infinite cose che sono in atto e che sono in potenzia di natura. E queste non isplemerebbe in un solo linguaggio, anzi in moltissimi, li quali ancor lor s’astendano inverso lo infinito, perché al continuo si variano di secolo in seculo e di paese in paese, mediante la mistion de’ popoli che, per le guerre o altri accidenti, al continuo si mistano».
Questo brano è forse una delle riflessioni più belle tra quelle che Leonardo dedica alla lingua nei suoi quaderni: per il fulmineo passare dall’infinitamente piccolo (il moto dei muscoli) all’infinitamente grande (la pluralità delle lingue); per l’idea di parzialità del linguaggio umano rispetto all’abbondanza dei fatti naturali.
Il tema del limite del linguaggio rispetto alla ricchezza della natura ritorna in diversi punti degli scritti di Leonardo. Non si tratta solo di una questione speculativa ma anche di natura pratica: per buona parte della sua vita, Leonardo cercò di migliorare la propria lingua. La prova più evidente di questo sforzo è nelle liste di migliaia di parole che riempiono le pagine del Codice Trivulziano: «un esercizio, una ginnastica mentale – come ha scritto Barbara Fanini, a cui si deve una recente edizione del testo – attraverso cui Leonardo accumula delle riserve personali di vocaboli pronti all’uso». Nella sua scrittura, d’altronde, la parola è continuamente in tensione con il disegno nella fissazione di un’idea, di un fenomeno osservato.
Da ormai una decina d’anni, lo studio della lingua di Leonardo vive una stagione felice. Ciò che sta accadendo è che si è esteso al corpus degli scritti di Leonardo il metodo filologico e linguistico più avanzato, quello praticato per i testi medievali. Le indagini si muovono su fronti diversi ma correlati. Un filone di ricerca è rappresentato dalle ricerche sul lessico, con la pubblicazione di glossari settoriali: la serie è stata aperta da Paola Manni e Marco Biffi per la nomenclatura delle macchine nei Codici di Madrid Atlantico; è proseguita con il glossario relativo all’ottica e alla prospettiva nei Codici di Francia, a cura di Margherita Quaglino, e poi con quello della nomenclatura anatomica nei disegni di Windsor, a cura di Rosa Piro. Un altro filone è costituito da nuove edizioni dei codici secondo criteri che permettono il massimo rispetto della lingua degli originali: due anni fa era uscita la già citata edizione delle liste di vocaboli del Codice Trivulziano a cura di Barbara Fanini; esce ora l’edizione del Codice Leicester, a cura di Andrea Felici.
L’importanza di restituire il più possibile la fisionomia della lingua degli originali, riducendo dunque al minimo gli ammodernamenti consueti nelle edizioni, risulterà chiara quando si consideri che Leonardo vive in un contesto nel quale l’italiano come lingua condivisa e codificata ancora, di fatto, non esiste. Non ci sono vocabolari, non c’è una grammatica di riferimento (le prime regole a stampa sono del 1516; Leonardo muore nel 1519). Questo vuol dire che nella lingua d’uso erano molto forti le tracce della formazione individuale come del parlato. Un esempio: quando Leonardo scrive isplemerebbe per esprimerebbe, nel passo citato in apertura, quella confusione tra r e l dopo consonante non è una svista di penna ma un tratto tipico del fiorentino popolare del tempo. Indizi, piccole spie nell’uso della lingua che contribuiscono a delineare meglio la fisionomia della complessa cultura di Leonardo.
Il Codice Leicester, oggi di proprietà di Bill Gates, è uno tra i più importanti manoscritti di Leonardo: l’anno scorso è stato al centro di una mostra alla British Library intitolata A Mind in Motion (se n’è data notizia anche su queste pagine). In quell’occasione, i 18 bifogli del codice erano stati affiancati alle pagine dedicate agli stessi temi estratte dal più ampio Codice Arundel, di proprietà della British: riflessioni sul moto delle acque, sulla natura della luna, sulla conformazione della terra.
Mentre i fogli dei Leicester erano in una scrittura posata, con i disegni disposti ordinatamente sui margini, quelli del codice Arundel erano disomogenei, con belle copie alternate ad appunti veloci. Questa differenza si lega alla finalità del Codice Leicester: quella di costituire la base per un futuro “libro delle acque”, non realizzato. La scrittura tendeva già, dunque, in una direzione più organizzata rispetto ai semplici appunti, anche se non sempre in modo coerente. Come segnala Felici, «in una stessa carta possono affiancarsi vari specchi di testo, talora di contenuto vario e aggiunti in momenti diversi». Di qui la scelta di offrire, per ogni pagina, una rappresentazione topografia dei diversi blocchi di scrittura, oltre che dei disegni.
L’edizione Felici è importante però soprattutto per l’aspetto linguistico. In primo luogo, perché restituisce la lingua di questo codice in tutte le sue componenti, anche di grafia; in secondo luogo, perché di quella lingua offre un’ottima descrizione: non solo nei suoi aspetti di dettaglio ma anche di portata più ampia. Mi riferisco all’attenzione che viene dedicata a quella che gli specialisti chiamano testualità: l’organizzazione del testo, la sua struttura argomentativa interna, gli elementi della lingua che permettono al discorso di essere funzionale al proprio fine. Una componente decisiva non solo per entrare all’interno del modo di ragionare di Leonardo ma anche per cogliere i legami della sua scrittura con la tradizione della prosa scientifica in volgare. Ogni albero, anche il più alto, ha profonde radici nel terreno in cui è nato.