Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2020
Anne Markham Schulz, la Dogaressa delle statue
«Out of the box... Ehm... Come si dice in italiano?». Fuori dagli schemi, le rispondo. «Ecco, sì: io ho sempre pensato fuori dagli schemi: out of the box». Sono al telefono con Anne Markham Schulz, storica dell’arte, massima studiosa di scultura veneta del Quattro e Cinquecento.
Con i suoi articoli, i suoi saggi e i suoi innumerevoli libri è lei infatti ad aver gettato le basi fondamentali per la conoscenza di quello straordinario momento del Rinascimento veneziano, quindi italiano, ovvero europeo. Cinquant’anni ininterrotti di lavoro, il suo. Di continui viaggi tra gli Stati Uniti e l’Europa. Principale meta l’Italia; e qui, dopo un periodo di ricerca sull’arte fiorentina tra gli anni 60 e primi 70, Venezia soprattutto. Nel 2017 è uscito The History of Venetian Renaissance Sculpture ca. 1400-1530, monumentale summa della sua lunga attività di approfondimento, lavoro magnificamente stampato dall’editore Harvey Miller in due poderosi volumi, di cui il secondo è formato interamente da 786 immagini di altissima qualità, per la maggior parte direttamente commissionate dall’autrice ai suoi due fotografi di riferimento: quello di ieri, Mario Polesel, e quello di oggi, Mauro Magliani.
Quando le chiedo di parlarmi di questo suo ultimo libro, mi sorprende, come solo lei sa fare. «Lo sto terminando», mi dice, «avrei necessità però di venire in Italia, ma sai il Covid...». Lei infatti parla da Providence, Stati Uniti, dove abita. Io, invece, dal mio domicilio friulano. Se qui la situazione pandemia sembra sotto controllo, tanto da averci lasciato vivere mesi abbastanza sereni, al di là dell’Atlantico le cose vanno decisamente peggio. Comunque, la interrompo immediatamente. «Ma come terminando?», le rispondo confuso. Ed ecco che dall’auricolare si fa largo la sua risata, fragorosa e spontanea come sempre, come durante i brevi caffè all’Archivio di Stato di Venezia, o le più lunghe pause pranzo nella defilata tavola calda lì accanto. «Non lo sapevi? Sì, sto scrivendo un altro libro; è dedicato agli scultori caronesi. Sai, mi sono accorta che in The History avevo affrontato molto bene la parte del bronzo, fatta tutta di novità e che credo di aver risolto ottimamente; non così invece con i caronesi. Posso fare di più, mi sono detta, e lo sto facendo».
Questa è Anne Markham Schulz. Ha 82 anni – è nata a New York nel 1938 – e continua ad avere una energia, una forza, una passione che spiazzano. Per questo ho voluto intervistarla, chiacchierare della sua storia, di come ha fatto, lei, donna ebrea americana, moglie di Juergen Schulz (scomparso nel 2014, a 87 anni), eminente studioso di architettura, direttore per molti anni del Dipartimento di Storia dell’Arte alla prestigiosissima Brown University, da lei ammiratissimo e amatissimo («Era bello come Gregory Peck»), a conquistare questa indiscussa posizione di credito nel mondo della storia dell’arte e della scultura in particolare. Autorevolezza che ha avuto una sua conferma esplicita quest’estate, quando da Christie’s, a Londra, un rilievo di Antonio Lombardo (1468 ca – 1516) raffigurante il Suicidio di Lucrezia è stato battuto per più di 4 milioni di sterline, partendo da una stima base di 500 mila.
Una cifra non indifferente, soprattutto in tempi di crisi come questi, e che è stata raggiunta per l’appunto anche grazie al riscontro positivo da lei dato sull’autografia dell’opera. Markham è tra quei pochi studiosi solitamente refrattari a collaborare con il mercato, ma in questa occasione non ha avuto tentennamenti: da quanto mi dice, quel rilievo di Antonio è effettivamente un pezzo importante, un unicum, ed essendo i Lombardo tra gli scultori da lei più amati, e sui quali si è soffermata in più di un’occasione (a Tullio, fratello di Antonio e padre di Sante, ha dedicato una monografia, uscita nel 2015), non poteva, per così dire, esimersi.
Le domando, quindi, se è in qualche modo consapevole che questo successo a sei zeri certifichi anche la considerazione che nel mondo dei collezionisti d’arte antica si ha del suo ruolo di esperta. No, non ci aveva pensato, confessa, ma forse la lettura che le offro è corretta, aggiunge. E allora sì, alla fine le fa piacere che quell’opera abbia avuto un così importante riscontro.
Questa passione per la scultura la coltiva fin da giovanissima. «Nasce – mi racconta – verso i 13 anni, quando, a Manhattan, frequentavo una scuola sperimentale, la Dalton School, dove gli studenti avevano la possibilità di fare quel che più piaceva loro. Lì, per quattro anni, insieme a un’amica, ho seguito i corsi di scultura tenuti da Rhys Caparn, un’artista all’epoca nota e molto impegnata». E dopo le scuole superiori, Harvard, e successivamente l’Institute of Fine Arts di New York. Qui ha come insegnanti studiosi del calibro di Erwin Panofsky, Rudolf Wittkower e Richard Krautheimer. Ma è con H. W. Janson che conseguirà la sua tesi di dottorato su Bernardo Rossellino e la sua bottega.
Come modello di riferimento ha The Sculptures of Donatello, pubblicato da Janson nel 1957. Grazie a questo libro intuisce che da lì in avanti per ben studiare e intendere la scultura sarà indispensabile raccogliere del materiale fotografico il più possibile di qualità. Parte allora per l’Italia. Siamo nel 1961. Arriva ad Arezzo, e con la sua caparbietà e tenacia riesce a farsi costruire un’impalcatura lungo la facciata di un palazzo. «All’epoca era molto più semplice e, soprattutto, molto meno costoso. Ma devi tenere presente che ero una donna, ero americana, ero sola, e oltretutto non sapevo bene la lingua».
Piano piano ha affinato le sue esigenze, fino a dettare in qualche modo la linea ad altri studiosi. «Le fotografie sono importanti», afferma, «e nel farle bisogna seguire delle buone regole. Cercare di avere del materiale il più oggettivo possibile, che ci aiuti a comprendere come ha operato l’artista, quali tecniche ha impiegato, quali strumenti ha usato etc. È il minimo per operare con serietà». Ci tiene molto a questo aspetto del suo modus operandi. Per lei è inspiegabile che certi studiosi possano scrivere pagine e pagine su opere da loro in sostanza non viste, perché male illuminate o sporche o collocate troppo in alto. Poi aggiunge un’altra riflessione, che un po’ riassume, almeno così intuisco, il suo metodo di lavoro: «Le opere sono tutto».