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 2020  settembre 27 Domenica calendario

Il cantar sinfonico di Puccini

Il mio Puccini inizia al pianoforte, tutto a memoria: E lucevan le stelleSì, mi chiamano Mimì Che gelida maninaDonde lieta. Quante volte ho accompagnato gli allievi di canto di mio padre in queste pagine famose. Vivevamo a Londra, io avrò avuto dodici o tredici anni, e al ritorno da scuola avevo il compito di dare una mano nelle lezioni private che lui dava in casa. Così, in maniera naturale, come una lingua assorbita di giorno in giorno, imparavo insieme la tecnica del pianoforte e i segreti della scrittura del nostro operista più importante, tra Ottocento e Novecento.
In breve mi trovai a conoscere tutte intere le sue composizioni. Non avevo bisogno della parte sul leggio: potevo eseguire da capo a fondo La Bohème o Madama Butterfly. Ne ero stregato. Ma con insistenza mio padre mi chiedeva in particolare le due Arie per tenore Or son sei mesi e Ch’ella mi creda libero e lontano dalla Fanciulla del West. Le cantava con trasporto, con la caratteristica nostalgia di chi è lontano dalla patria, e gli usciva molto bene il personaggio di Dick Johnson, avventuriero e romantico, straniero e passionale, innamorato. A distanza, devo riconoscere che il mio è stato un punto di partenza davvero privilegiato. Per un apprendistato particolare. Perché ascoltando e accompagnando assorbivo le caratteristiche della melodia, ma nello stesso tempo scoprivo attraverso il pianoforte lo scheletro modernissimo della scrittura per orchestra. Dalla tastiera, esce ancora più evidente la cultura di Puccini, aggiornata su tutto quanto musicalmente succedeva al di fuori dei confini. Internazionale, dunque. Eppure così schiettamente italiano.
A staccarlo dai compositori che aveva intorno c’è quella sensibilità particolare, capace di indagare e tradurre i sentimenti con una lente nuova. Prendiamo La Bohème, ad esempio, l’ultima sua opera che ho diretto, a Londra. Non la facevo da sedici anni. Un abisso, per un titolo così importante. Quando l’ho ripresa, al Covent Garden, mi sono trovato di fronte una partitura nuova. E paradossalmente avvertivo in maniera più scatenata e radicale tutta la follia che Puccini ci butta dentro. Provavo un feeling diretto con il passo spedito, le lunghe frasi, le parole del libretto. Mi trovavo a recitarle a memoria: ero in uno stato di panico, quasi fuori di me. Come i teenagers quando si scatenano senza freni. Perché tutta l’opera si focalizza lì, non ha altri centri: il tema è la giovinezza, col suo arco breve. Che meglio si comprende quando è lontano, quando è finito.
Un altro capolavoro per spiegare la tecnica di messa a fuoco dei sentimenti individuata da Puccini è Trittico: scritto per il Metropolitan di New York, dove debutta nel 1918, è forse la sua scommessa più ardita, composto come è di tre opere, in un atto. Diverse, ma da tenere legate insieme. L’ho diretto in due occasioni, a Bruxelles e a Londra, e ogni sera la più grande sorpresa mi arrivava puntuale al centro, con Suor Angelica. Anzi, esattamente al centro del centro. Quando dopo aver lasciato passare i primi venti minuti, di pennellate di pura atmosfera, per ricreare i dettagli di ogni suora del convento – e cioè il clima stesso del convento – Puccini sposta tutto sullo sfondo, perché vuole in primo piano l’incontro tra Suor Angelica e la zia Principessa. Tagliata con il coltello, lì esce la rivelazione di quanto è successo, da quando la ragazza è stata rinchiusa, per punizione. E alla notizia della morte del bambino, avvenuta a sua insaputa, e già due anni prima, ogni frase prende una grandiosa nobiltà tragica, che ti inchioda per lo scavo profondo dell’anima. E ti commuove, più che il suicidio finale.
Ho avuto la fortuna di dirigere più volte La Fanciulla del West con Piero Faggioni, un regista che sa tutto non solo sulla storia, ma sul retroterra della storia. Un maestro, da cui ho imparato tanto, che alle prove mi lasciava ogni volta stupefatto per la perfetta tensione, da “noir”. Per il direttore d’orchestra questa è la partitura che forse più di tutte rivela la conoscenza del Novecento che aveva Puccini, in particolare di Debussy e di Richard Strauss. Non ho mai portato in scena La Rondine, però l’ho registrata in disco. Invece mi manca Turandot. Non l’ho ancora affrontata. Forse perché non mi sembra di una drammaturgia esaltante, forse perché è una fiaba, e dunque non possiede quella componente di realismo/verismo di Tosca o Butterfly. Sicuramente sbaglio io. Forse perché è una storia antica. O perché è incompiuta. O perché la donna protagonista non ha lo stesso slancio di Manon, la forza della fanciulla Minnie, il carattere di Cio-Cio-San, che adoro: la piccola Butterfly, capace di soffrire, di accettare, senza mai perdere la speranza.
In Manon Lescaut sentiamo una decisa impronta wagneriana. È il suo primo autentico successo in teatro. Ma ricordiamo che Puccini aveva ormai trentacinque anni, un’età anomala, in un mondo dove ci si affermava giovanissimi. È una partitura che spiega tutta la fatica, per arrivare al risultato. Dove fondamentalmente Puccini doveva sciogliersi dall’eredità di Verdi. Quello era lo scoglio. L’unica strada per staccarsi era inserirsi nella scia di Wagner. Poco importava invece prendere alcuni passi da Massenet (che prima di lui aveva composto l’altra Manon), perché imitare la scuola francese non era un problema. Il problema era l’eredità del padre, l’ombra dominante. Per tutti i compositori italiani del tempo, da Mascagni a Giordano, scrivere significava prendere le misure rispetto alle impronte giganti di Verdi. Una delle soluzioni, per differenziarsi, era stata il ritorno alla musica del Settecento, ossia quella che allora era considerata la musica antica. Con un balzo all’indietro, saltando l’Ottocento. Non si trattava ovviamente di un recupero filologico, ma del gusto per il “pastiche”: il piacere di scrivere gavotte e minuetti. E su questo terreno Puccini aveva un tocco speciale. Era un genio nella finzione, la dominava, da super raffinato. Basta ascoltare il secondo atto di Manon Lescaut.
Un gesto costante, nelle sue partiture, è l’accompagnamento fatto di melodia: certo, in questo modo ti si stampa nella memoria. E appoggia la linea del cantante. Però gli crea anche una concorrenza. Ecco perché ci vogliono voci di peso, per cantare Puccini. Perché è un cantare sinfonico, non operistico, non di scuola italiana tradizionale. È così il suo stile fin dalle prime prove di Le Villi e Edgar, l’una così nordica, nell’Intermezzo della Tregenda, l’altra così bizzarra nella costruzione, al di là dei medaglioni delle Arie famose, per tenore e baritono (che ho inciso in disco). Il compositore stava cercando la propria personalità. Soprattutto cercava dei libretti, voleva dei librettisti nuovi. Li torturava, li faceva impazzire, passava dall’uno all’altro, come in Manon Lescaut. Dai testi in versi toglieva tutto il grasso, la materia connettiva, per arrivare all’essenza. Chiedeva storie di anime. Difficile perciò poi da mettere in scena, anche per i registi.
Anche perché Puccini – in ogni opera – ha questa idea fissa del luogo geografico, che dà identità alla storia. Così La Bohème è Parigi, Butterfly il Giappone (e insieme l’America), Turandot la Cina antica, La fanciulla le miniere di cercatori d’oro del West. Gianni Schicchi è Firenze e Tosca è grandiosamente Roma. Il posto è importantissimo per la sua scrittura: la geografia diventa lo specchio del teatro. Lui la illustra, tra l’altro ricreando perfettamente anche luoghi dove non era mai stato; con un fortissimo potere immaginativo. Che stregava gli spettatori di allora – incantati dai viaggi esotici – ma ugualmente quelli di oggi, che magari quei posti li hanno ben conosciuti.
È un artista italiano, Puccini. Di una italianità educata, colta. Di grande classe. Di bel taglio, come erano i suoi abiti. Si è molto detto del suo rapporto con le donne create per il teatro, che finiscono quasi tutte uccise, in scena, in un replicarsi quasi sadico. Molto strano, per un uomo che le amava. Però dobbiamo pensare al suo tempo, che è quello di Freud e di Mahler, della scuola di Vienna, di Schönberg, Berg e Zemlinsky. Dobbiamo ricordare come era la donna nella pittura e nella letteratura. E le prime indagini nel cervello, nei sogni, nell’inconscio. Puccini è dentro questa corrente. Dove la psicologia diventa centrale, tanto quanto la politica lo era stata per l’Ottocento. Per riflettere sulle debolezze umane e sulle sofferenze, sempre in vista. Tra i direttori che lo hanno compreso di più sicuramente il primo è Toscanini, che tiene a battesimo La Bohème a Torino, e poi Fanciulla a New York e la Turandot, postuma, alla Scala. Però io provo grande ammirazione per De Sabata, in quella Tosca con la terna Callas-Di Stefano-Gobbi. Insuperabile La Bohème di Carlos Kleiber: assoluta.