La Stampa, 27 settembre 2020
Se la Francia rivendica la blasfemia
Adesso qualcuno replicherà che l’ennesimo attentato terroristico contro l’ardire di Charlie Hebdo riguarda anche l’assolutismo talvolta un po’ arrogante con cui la Republique declina il concetto di laicité. Altri spiegheranno che, al netto della condanna della violenza, il diritto di satira dovrebbe rispettare la sensibilità di quanti alle battute sulla religione non ridono per niente. I cinici infine si volteranno ancora una volta dall’altra parte perché chi semina vento raccoglie tempesta e la mannaia di rue Nicolas Appert sembra l’ennesimo atto dello scontro tra Voltaire e Maometto, una questione tutta transalpina. E’ molto più complicato di così. A ricordarcelo oggi sono i giornalisti francesi, e non solo quelli fieramente senza tabù.
Appena due giorni prima che il terrore ripiombasse glaciale sull’XI arrondissement ma con le minacce islamiste già incalzanti, oltre 95 testate nazionali hanno sottoscritto l’appello "Ensemble, défendons la Liberté", una lettera aperta ai citoyens per dire che il diritto ad esprimere la propria opinione comprende anche quello, scomodissimo, alla blasfemia. Addirittura la blasfemia, sissignore.
La novità non è la vocazione parigina a "scandalizzare il borghese" ma la lista onnicomprensiva delle firme: conservatori, progressisti, atei, credenti, Libération e Le Figaro, la tv pubblica France Télévisions e i privati di BFM, L’Humanité e il quotidiano di riferimento dei cattolici francesi La Croix, il settimanale d’ispirazione cristiano-sociale La Vie e una voce indiscussa della provincia profonda come Ouest-France. Si obietterà la mancanza di voci periferiche, musulmane, come quando all’indomani della grande marcia repubblicana contro la mattanza di Charlie Hebdo il sociologo Emmanuel Todd scrisse il pamphlet polemico "Qui est Charlie. Sociologie d’une crise religieuse" per dissacrare quel corteo compatto sì ma anche bianco, globalizzato, ceto medio urbano e lontanissimo dalle periferie. Un’argomentazione valida ieri come oggi, ma forse, ieri come oggi, un po’ capziosa.
In un momento storico in cui il mestiere di raccontare la realtà ha passato la mano al mordi e fuggi virtuale della rete, i giornalisti francesi rivendicano un ruolo antico, archetipo, la possibilità di contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. Piaccia o meno, è l’origine più nobile della stampa.
La Francia percepisce il pericolo più profondo della sfida fondamentalista, il rischio dell’assuefazione alla paura che diventa infine routine. Se parli in un certo modo sai cosa rischi: uomo avvisato mezzo salvato. Da qui nasce l’appello alla difesa della libertà tout court, perfino della blasfemia, perché la sensazione è che non bastino più l’intervento delle istituzioni, la magistratura, l’impegno del governo. La risposta alla caricatura, anche alla più offensiva e mortificante, non può essere la mannaia o il kalashnikov. Mai. E c’è bisogno di una presa di coscienza dei citoyens, i cittadini, l’opinione pubblica appunto, lo Stato nel senso più democratico del termine. C’è bisogno del coraggio di dire da che parte si sta e in Francia, in queste ore, i giornalisti stanno tutti dalla stessa parte. Quasi tutti. Nell’elenco si nota l’assenza pesante dell’Afp, la regina delle agenzie di stampa i cui vertici hanno poi spiegato di essersi astenuti per non mettere a repentaglio la vita dei loro colleghi impegnati sul campo nei Paesi musulmani. Peccato, perché nella fattispecie non si chiedeva loro di ripubblicare le famigerate vignette sul Profeta ma solo di affermare il diritto di pubblicarle così come il diritto di criticarle, biasimarle, boicottarle. Un diritto a cui, per altro, i musulmani sono tutt’altro che insensibili.