la Repubblica, 27 settembre 2020
L’arma di Donald per conquistare lo spazio
«Le Space Forces devono impadronirsi della scienza e dell’arte della guerra spaziale: conoscere perfettamente Keplero e Clausewitz, Maxwell e Sun Tzu, Newton e Liddle Hart». L’identikit del soldato del futuro prossimo è un ritratto a metà strada tra l’astrofisico e il parà, tra il nerd e il samurai: «Servono agilità, innovazione, audacia». Lo ha teorizzato un documento pubblicato poco più di un mese fa, destinato a rivoluzionare la natura dei conflitti: la prima definizione dottrinaria del potere spaziale. L’hanno redatto gli strateghi della Space Force, la nuova forza armata autonoma voluta nel 2019 dal presidente Donald Trump con l’ambizione di essere «catastroficamente determinante nelle guerre del domani».
Finora ogni iniziativa è stata accolta con ilarità. Dal simbolo che imita quello di Star Trek all’adozione di tute mimetiche vegetate («Lo sanno che nella stratosfera non ci sono piante?!») fino al phisique du role del capo, il generale Jay Raymond («Ha un’aria vagamente vulcaniana…»). Prima ancora che diventasse operativa, Netflix gli ha dedicato una serie satirica, con Steve Carell e John Malkovich obbligati dalla Casa Bianca a mandare “boots on the moon": fanti sulla Luna per sfidare i cinesi.
Scherzi a parte, le 41 pagine che teorizzano “la supremazia spaziale” sono un testo da brivido. Lo introduce una frase di Lyndon Johnson, il presidente dell’escalation in Vietnam: «C’è qualcosa di più importante di ogni arma finale. È la posizione finale: la posizione di totale controllo sulla Terra che si trova da qualche parte nello spazio». Dalla notte dei tempi, le battaglie si vincono conquistando la posizione più alta. E ora questo concetto viene declinato nella modernità per occupare la posizione più alta di tutte: chi domina le orbite è padrone di qualunque campo di battaglia, in ogni angolo del pianeta. «Lo spacepower è intrinsecamente globale», recita il manuale.
Questa la teoria. Che comincia a essere messa in pratica, partendo dal primo dei cinque pilastri della dottrina statunitense: garantire la sicurezza dei satelliti. Negli ultimi anni sono stati segnalati esperimenti russi, cinesi, indiani e persino iraniani per distruggere o “accecare” le stazioni orbitanti. Dalle quali dipendono le comunicazioni intercontinentali, la possibilità di sorvegliare gli avversari e soprattutto il geo-posizionamento: oggi senza le coordinate gps nessuna arma funziona. Missili, bombe, aerei, navi, tank, persino le pattuglie di incursori in azione dei monti afgani hanno bisogno dei segnali dei satelliti per muoversi e colpire.
Così in una base nel deserto del Colorado è entrata in funzione la Delta-6, un’unità di cyber-combattimento spaziale: il suo compito è impedire che le trasmissioni dei satelliti americani vengano compromesse e – ovviamente – riuscire a manipolare quelle dei congegni nemici. Nel bunker di Schriever ben 8.100 militari gestiscono 170 satelliti. La Delta-6 è una creatura che viene dal passato: dalla pista di Nha Trang ha combattuto i primi duelli elettronici della storia, contrastando i dispositivi con cui nordvietnamiti e sovietici disturbavano le frequenze dei bombardieri B-52. Adesso alza gli occhi alle stelle e ripete la stessa missione ma con tecnologie infinitamente più sofisticate. Che il generale Raymond vuole comprare senza stare dietro alla burocrazia: «Ci sono 65 organizzazioni diverse che se ne occupano. Dobbiamo unificare gli sforzi del Pentagono, riducendo i costi e aumentando la rapidità. Siamo nella cuspide di un cambiamento tettonico nel concetto di guerra».
Washington ha fretta. Per quasi un ventennio ha pensato solo alla sfida contro il terrorismo islamico, perdendo terreno nel confronto con le altre potenze. I piani per la Space Force prevedono entro quattro anni di raggiungere un organico di 18 mila militari. Il generale Raymond vuole che gli “space warrior” siano dei «pionieri dotati di creatività e immaginazione»: un’armata di «esploratori, innovatori, diplomatici, scienziati, manager ma soprattutto combattenti», con una «comprensione intuitiva della dimensione in cui devono agire». Piccoli reparti ma altamente qualificati, che si stanno già schierando in tutto il mondo, da Sigonella al Qatar, per presidiare le vedette orbitanti che vigilano sui lanci di missili balistici.
Poi si passerà alla fase due, la più segreta: le armi offensive. Ci sono test su laser dislocati a terra in grado di mettere fuori uso i satelliti e altri da imbarcare sugli shuttle. Il punto dolente è proprio questo: gli Usa non hanno più navette. L’unica è il Boeing X-37 telecomandato che da dieci anni compie voli misteriosi ma è già considerato obsoleto. C’è un programma per potenziarlo, con un sistema di guida affidato all’intelligenza artificiale. Nel frattempo, però, i cinesi lo hanno già copiato: la prima missione si è conclusa due settimane fa. Segnando l’esordio nello spazio della nuova Guerra fredda.