Corriere della Sera, 27 settembre 2020
Trump ha nominato Amy Coney Barrett alla Corte Suprema
WASHINGTON Calcolo politico e grandi principi. Stato laico e fede religiosa. Legge e diritti individuali. La nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema ha già innescato un aspro scontro tra repubblicani e democratici, ma anche un intenso dibattito culturale sui media americani.
Ieri Donald Trump ha confermato la scelta già annunciata, designando Barrett, 48 anni, sette figli, due dei quali adottati ad Haiti, per la sostituzione di Ruth Bader Ginsburg. Barrett è una giurista con una solida formazione. È nata a New Orleans, è cresciuta in una famiglia numerosa: la prima di sette figli. Ha sgobbato parecchio sui libri, fino a laurearsi con il massimo dei voti alla Notre Dame Law School, nell’Indiana. Comincia come assistente giudiziaria a Washington. Per un anno ha lavorato alla Corte Suprema con il giudice Antonin Scalia, massima autorità della cosiddetta dottrina originalista: la Costituzione va applicata alla lettera, non interpretata o «piegata» allo spirito dei tempi. Una filosofia del diritto che Barrett ha promosso come docente universitario, tornando alla Notre Dame Law School.
Ma non è solo tutto ciò che rende questo momento così speciale. Amy è anche una fervente cattolica, per diverso tempo impegnata in organizzazioni «pro life», come «The people of Praise». Sostiene da anni posizioni inflessibili contro l’aborto, contro i matrimoni tra omosessuali. È diventata un punto di riferimento del movimento «per la vita» che spinge per limitare il più possibile, a livello federale o nei singoli Stati, il diritto all’interruzione di gravidanza, sancito dalla storica sentenza della Corte Suprema, «Roe v. Wade», nel 1973. Trump la nominò giudice federale nel 2017 e ora vuole portarla sui banchi del massimo organo giudiziario del Paese: dovrebbe farcela, visto che al Senato i repubblicani sembrano avere i numeri (50 o 51 voti) per la conferma. Nei giorni scorsi i giornali hanno ripescato l’audizione di Barrett davanti al Senato proprio del 2017. In quell’occasione la magistrata disse due cose da tenere a mente. Primo: l’attività dei giudici, qualunque sia il loro livello, non può essere condizionata dalla politica. Secondo: tutti i togati devono rispettare le sentenze della Corte Suprema, senza far valere le proprie convinzioni religiose. Affermazioni ovvie, in fondo. Ma non sappiamo se la giudice le porterà con sé sui banchi della Corte Suprema.
Il primo test potrebbe arrivare immediatamente dopo il 3 novembre, in caso di elezioni perse e contestate da Trump. Il presidente si aspetta che la nuova Corte, con una netta impronta conservatrice (6 a 3), gli dia comunque ragione. Da questo punto di vista, pensano alla Casa Bianca, Barrett è il profilo ideale. Eventualmente lo verificheremo nei fatti. Ci sarà, poi, un’altra prova fondamentale. Più presto che tardi i nove giudici di Washington potranno essere chiamati a pronunciarsi di nuovo sull’aborto. È forse la materia più scivolosa della giurisprudenza americana, perché come osservava Abigail Adams, moglie di John Adams, «Padre fondatore» e secondo presidente degli Stati Uniti, «la Costituzione si è dimenticata delle donne».
Il Paese cominciò ad affrontare la questione negli anni Sessanta e uno dei primi Stati ad ammettere l’aborto per ragioni terapeutiche fu la California, nel 1967. La legge non fu firmata da un governatore iper liberal, ma dal conservatore anti abortista, Ronald Reagan. Amy non era ancora nata. Nel 1973 la sentenza «Roe v. Wade» trovò un punto di equilibrio, da tempo rimesso in discussione. Arrivata alla Corte Suprema nel 1993 la giudice Ginsburg capeggiò lo sforzo per radicare la libertà di scelta non nel diritto alla privacy, ma tra i diritti personali, e quindi inviolabili, della donna. Dall’altra parte il movimento Pro life si aspetta che sia la cattolica Barrett a guidare la controffensiva. Vedremo.