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 2020  settembre 27 Domenica calendario

Non chiamatelo Recovery fund

I nomi sono sempre importanti e hanno un significato preciso. Il nome del programma non è Recovery fund, Fondo per la ripresa, ma Next generation Eu, l’Europa delle nuove generazioni. Non è una differenza solo lessicale: vuole sottolineare che il nuovo programma non dovrà essere costruito avendo in mente gli europei di oggi, ma quelli di domani. Mi chiedo se questa attenzione alle generazioni future sia presente in chi sta preparando il programma che il governo italiano invierà a Bruxelles fra due settimane. In caso contrario le nostre proposte potrebbero, a ragione, non essere accolte. Ma se sarà, come è auspicabile, un programma rivolto alle generazioni future, dovrà essere molto diverso, spesso in contrasto, con alcune delle misure che il governo oggi sta varando. Prendiamo ad esempio il futuro del Mezzogiorno.
I Paesi poveri sia di capitale fisico che di capitale umano non possono fare altro che specializzarsi nella produzione di beni «poveri», che richiedono più lavoro che capitale e costano poco grazie a salari relativamente bassi. Invece, Paesi ricchi sia di capitale fisico che di capitale umano, possono permettersi salari elevati. È la differenza che c’è fra il Vietnam e la Germania.
C i sono poi Paesi intermedi: hanno un buon capitale umano, spesso grazie alla loro storia, alla loro cultura e ad una buona istruzione, ma scarso capitale fisico, magari perché hanno cattive istituzioni che allontano gli investitori. Questi Paesi, come ha osservato uno dei più brillanti economisti dei giorni nostri, Dani Rodrik, hanno due strade: accontentarsi di una tecnologia povera e puntare sul basso costo del lavoro, oppure investire, adottare le migliori tecnologie e permettersi alti salari. Quale strada imboccano dipende dalle scelte dei loro governi.
Singapore e Corea del Sud sono esempi di successo della seconda strategia: paesi poveri cinquant’anni fa, ma cresciuti rapidamente puntando su investimenti, tecnologia e salari relativamente alti: il risultato di scelte politiche che hanno creato le condizioni per la nascita di aziende come Samsung e LG. Non c’è nulla che impedisca al nostro Mezzogiorno di imboccare la strada della Corea del Sud. E l’occasione dei fondi europei può essere quella che è mancata per oltre un secolo. Occorrono investimenti nell’istruzione e una fiscalità che favorisca aziende ad alta tecnologia. Che siano possibili nel Mezzogiorno lo provano il successo di STMicroelectronics nella «Silicon Valley» di Catania e del distretto aereospaziale pugliese.
Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale, si è invece orientato nella direzione opposta: una strada che potrebbe avvicinare il Mezzogiorno al Vietnam. Infatti, la decontribuzione del lavoro al Sud, per la quale il ministro si è battuto, abbassa il costo del lavoro e induce le aziende ad investire in produzioni il cui vantaggio comparato non è la tecnologia, ma il basso costo del lavoro. Il Vietnam appunto (naturalmente senza alcun giudizio negativo su quel Paese coraggioso). Certo non il modo migliore per aiutare le future generazioni del nostro Sud.
L’Europa potrà anche accettare una proposta di fiscalità di vantaggio per il Sud – come è sembrato in questi giorni nonostante possa apparire come una indebita concorrenza fiscale tra Paesi e zone dell’Unione – ma l’interrogativo non è per Bruxelles, è per noi. Siamo certi che sia la strada migliore per aumentare la nostra produttività? E che non si creino solo posti di lavoro a basso valore aggiunto che alla prima ripresa potrebbero essere spazzati via da nuove riallocazioni delle risorse?
La riduzione dei contributi sociali sul lavoro è un esempio di come la fiscalità non sia mai neutrale ma indirizzi l’economia di un Paese. Un altro esempio sono le agevolazioni fiscali cosiddette «industria 4.0» che consentono ad aziende relativamente piccole di superare i limiti posti dalla loro dimensione integrandosi con i clienti. Ad esempio delegando ad essi il controllo di qualità sui prodotti. Inizialmente il governo era contrario e aveva rallentato questo progetto. Ora, fortunatamente, pare averne capito l’importanza.
La scorsa settimana il Consiglio europeo ci ha assegnato 27,4 miliardi di euro nell’ambito del Sure, un programma di aiuto temporaneo alla disoccupazione. Come usarli? Il ministro del Lavoro (e i sindacati) chiedono l’estensione a tutti, indiscriminatamente, della cassa integrazione. E si oppongono all’utilizzo della cassa per attività di formazione. Cioè escludono che la cassa possa servire per facilitare la transizione verso un nuovo posto di lavoro. Un lavoratore dovrebbe rimanere legato alla propria azienda non solo in occasione d i cadute temporanee della domanda, ma anche quando questa ha una crisi irreversibile.
Il Covid renderà necessaria un’ampia riallocazione dell’attività economica e quindi del lavoro. Aziende i cui prodotti sono difficilmente compatibili con il distanziamento sociale vedranno ridursi la domanda, che si sposterà verso beni e servizi per i quali il distanziamento sociale non è un problema. Pensare alle generazioni future vuol dire favorire questa riallocazione. Così com’è invece la cassa illude i lavoratori che finita la pandemia il loro posto di lavoro sarà lì ad aspettarli: in molti casi purtroppo quell’impiego non ci sarà più. Compito di un governo è costruire il futuro. Con un po’ di coraggio.
In tempi di crisi profonde, che cambiano i modelli produttivi, occorre essere lungimiranti. A interventi di sostegno immediato, come è stato in questi mesi, si devono accompagnare riforme che dispieghino i loro effetti sul lungo periodo. Non semplici Recovery plan ma azioni che salvaguardino il futuro delle nuove generazioni. Next generation Eu, appunto.