Tuttolibri, 26 settembre 2020
6QQAFM10 Su "Un mondo a portata di mano" di Maylis de Kerangal (Feltrinelli)
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Paula e Jonas, studenti alla scuola del trompe-l’œil di Bruxelles, sono coinquilini in un piccolo appartamento. È novembre e il cielo della capitale belga «prende il colore del porridge». Piove, fa freddo. E Paula è in difficoltà: ha scelto di riprodurre un marmo particolare, il Cerfontaine, tra il rosa e il violaceo, che proviene da una cava delle Ardenne. D’un tratto Jonas la guarda fissa e le chiede: «Che marmo è?». Insomma, che storia ha? È uno dei passaggi chiave dell’ultimo romanzo di Maylis de Kerangal, «Un mondo a portata di mano». Per riprodurre anche un «semplice» marmo, bisogna conoscerne la storia, l’essenza, i dettagli più insospettabili: Paula l’aveva sottovalutato. I due andranno alla cava, per immaginare il trasformarsi delle pietre da milioni di anni. E da Jonas Paula impara che bisogna prendere un po’ di distanza da quel lavoro, per farlo meglio: «Ricorderà di aver capito che dipingere era prima di tutto non dipingere, ma uscire in strada e andare a bere una birra».
È un romanzo di formazione Un mondo a portata di mano. Paula Karst, parigina, studia al prestigioso Istituto superiore di pittura di Bruxelles, dove conosce il taciturno Jonas e Kate, «bel pezzo di ragazza, testa decisa e caratteraccio, nervi sempre a fior di pelle». Quella scuola è un’esperienza dura ma totalizzante. Dopo essersi diplomata, per Paula inizieranno le prime esperienze di lavoro: disegnare un cielo sul soffitto della camera di un bambino. Ma soprattutto diversi cantieri in Italia, anche a Cinecittà. Poi a Mosca, sul set di un film su Anna Karenina, e infine nel Sud della Francia, dove Paula lavora alla ricreazione della grotta di Lascaux e dei suoi disegni preistorici. Nel frattempo, con gli amici Jonas e Kate, non si abbandoneranno mai.
Con un vocabolario preciso e tecnico la scrittrice genera un immaginario poetico, una serie di scene estetizzanti sulle quali Paula scivola con leggerezza. Ma, come sempre con la de Kerangal, il romanzo resta altamente realistico. Le frasi sono lunghe, denso il testo (ha qualcosa di minerale, come i marmi descritti, è di una bellezza fossile). Talvolta manca l’aria, ma per la scrittrice è una sfida: la letteratura deve servire a imparare, conoscere. Il romanzo è una riflessione sull’arte di rappresentare il mondo. Ma, grazie ai ricordi di bambina di Paula (che sono quelli di Maylis, oggi una donna di 53 anni), al libro s’impone un altro fil rouge: la ricerca dell’innocenza dell’infanzia, di un mondo non corrotto all’alba dei tempi (la passione per le grotte preistoriche). Un’immanente nostalgia.
All’inizio di Riparare i viventi, c’erano tre amici, giovani surfisti (e sarebbe finita male). Anche il nuovo romanzo di Maylis de Kerangal, Un mondo a portata di mano, appena pubblicato in Italia da Feltrinelli, comincia con tre amici che si rivedono dopo un po’ di tempo. Una sera, a Parigi. «Pure loro condividono una passione comune: stavolta si tratta della pittura, come atto del dipingere, la decorazione», spiega la scrittrice, in un bar molto parigino, nell’undicesimo arrondissement, vicino a casa sua. Un po’ come i café dove Paula, Kate e Jonas quella sera vanno a bere e a raccontarsi le loro storie. Hanno studiato assieme il trompe-l’œil in una scuola a Bruxelles. Un flashback ci riporta a quell’esperienza dura e appassionata. Poi il romanzo segue i primi anni di carriera di Paula, che si ritrova perfino a Cinecittà, a dipingere le scenografie di Habemus papam, il film di Nanni Moretti.
Chi è questa ragazza?
«Viene da Parigi. Non ha le idee chiare, è un po’ una scansafatiche. Ma d’un tratto scova una via possibile per la sua vita. Questo è anche un libro sull’uscita dall’adolescenza. In quella scuola troverà lo stupore, ma pure la fatica, il fervore, la passione. E un mestiere. È un vero romanzo di formazione. Cerco di avvicinarmi al tema della creazione artistica, ma arrivando dal basso, con un approccio molto prosaico. La pittura decorativa è un lavoro manuale, con determinati gesti, strumenti, tecniche, anche se poi comporta altri elementi, come l’emozione, l’occhio, la cultura».
Veniamo a Jonas…
«Lo incontra a Bruxelles, è il suo coinquilino. Lui porta altro rispetto a Paula: il genio, la facilità, la leggerezza, la disinvoltura. Lei è una che lavora, Jonas un pittore molto dotato. E poi alla scuola arriva Kate, scozzese, una ragazza spavalda, più tonica, estroversa, tatuata. Dopo i tre prenderanno strade diverse ma non si abbandoneranno mai. Il romanzo, comunque, si sofferma soprattutto su Paula».
C’è qualcosa di lei in Paula?
«È il personaggio più autobiografico che abbia mai immaginato. C’è soprattutto il mio rapporto con il lavoro, il mio impegno. Mi piace la sua concretezza. Non cerca di fare la pittura come un’arte, ma inizia imparando a copiare. Anch’io guardo alla letteratura partendo dal basso, come il fatto di lavorare su un testo o sul lessico. Paula riproduce le superfici del mondo, come il finto marmo o i vari tipi di legno. In un certo senso lei descrive. E anch’io nei miei libri descrivo molto».
Nel libro si sofferma sui vari tipi di pietra o di pigmenti e su procedimenti tecnici…
«All’inizio il tema principale doveva essere la preistoria. Mi affascina il fatto che in Francia alcune grotte del paleolitico, con i loro dipinti, siano state riprodotte tale e quali mediante dei facsimili, visitabili da parte dei turisti, come la grotta di Lascaux, in Dordogna. Paula andrà a lavorare in quel contesto. Ma è poi diventata solo una parte del romanzo. Dopo che ho visitato la scuola a Bruxelles, che esiste davvero, mi ha affascinato talmente che ha preso uno spazio molto grande».
Cosa l’ha attratta?
«La scoperta di un lessico straordinario. Per me la precisione è un modo di fare politica. Il romanzo è un contesto ideale per resistere alla standardizzazione del linguaggio. Che è la lingua liquida, che scivola via, con le parole espresse così come vengono. È quella standardizzata del mondo neoliberale in cui viviamo, che leviga tutto e lo rende uniforme. La precisione è una forma di resistenza a tutto questo. Anche se poi mi rendo conto che il libro non risulta facile».
Da come lo descrive, il lavoro di Paula è molto fisico. Anche il suo di scrittrice?
«Sì, fisicamente scrivere è faticoso. Io lo faccio in una piccola stanza sotto i tetti di Parigi, all’ultimo piano di un palazzo, dove un tempo viveva la domestica. È a quattro fermate di metropolitana da casa mia. Ho una famiglia e quattro figli. Ho bisogno di uno stacco, di quello che Virginia Woolf chiamava “una stanza tutta per sé”».
Uno dei primi lavori viene assegnato a Paula dal Museo Egizio, a Torino. La città nel romanzo è descritta così: “Austera, elegante, di un fasto freddo”.
«Mi piace il suo rigore ma al tempo stesso c’è qualcosa di elegante. Non ha niente a che vedere con Milano. C’è una forma di austerità. Non si ritrova nello spirito superliberale di oggi, non è una città da fashion week… È colta, un po’ aristocratica. È rimasta se stessa, mentre le altre città si trasformano, tutte nello stesso senso. Torino è impermeabile».
Poi Paula va a lavorare a Cinecittà, che lei descrive con molta precisione…
«L’ho visitata e mi sono documentata. Mi affascinano le grandi scenografie esterne. Sono mondi disponibili alla finzione: nello stesso set ci si può fare un film e un mese più tardi una serie televisiva, giusto cambiando qualcosa. Poi è interessante la storia di Cinecittà, alla quale dedico alcune pagine del romanzo. Nei mesi successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, divenne un campo profughi, soprattutto per gli italiani della Dalmazia. Nel teatro 5, reso poi famoso da Fellini, allestirono delle pareti, per fare come piccoli appartamenti. Quelle persone ci vivevano con la propria disperazione, i sogni. Ma alcuni di loro diventeranno le comparse dei film che rilanceranno Cinecittà, in particolare il genere peplum. Sono i cicli della storia che si chiudono, fra realtà e finzione».
Lei viaggia molto per scrivere i suoi romanzi? O ha viaggiato in precedenza? Ha lavorato per anni per le guide turistiche di Gallimard, prima di diventare una scrittrice di successo…
«In quegli anni mi spostavo molto in Francia. Dovevo individuare degli itinerari: ancora oggi i miei libri si sviluppano intorno a una traiettoria fisica. Certo, vado a visitare i luoghi dei miei romanzi, ma non prima d’iniziare a scrivere, altrimenti avrei la sensazione di accumulare dei dati: il romanzo diventerebbe solo un’elaborazione per la finzione. Invece, inizio a scrivere e rapidamente s’impone la necessità di andare sul posto. Parto di volta in volta».
«In questo romanzo l’amore è come un pesce che scivola sotto l’acqua e che alla fine emerge. Ma non diciamone troppo. Gli attentati di Charlie Hebdo sono nel libro, perché io vivo in questo quartiere, a breve distanza da dove c’era la loro redazione, nel gennaio 2015. E poi nel novembre dello stesso anno, gli altri attentati colpirono ancora in queste strade, pure sotto casa mia. Per chi vive qui, rispetto a quegli eventi, c’è un prima e un dopo: ho scritto il romanzo allora, in qualche modo quelle tragedie dovevano comparire. E l’amore nel romanzo arriva come una speranza, subito dopo gli attentati. È un libro che ho scritto sulla bellezza, sull’immaginazione. Contro tutto quello»