La Lettura, 20 settembre 2020
Su "Sillabe di fuoco" di Gabriela Mistral (Bompiani)
In uno scritto intitolato Il pane, il sale e la pietra, Octavio Paz sostiene che la «rima storica e letteraria» tra la cilena Gabriela Mistral (1889-1957) e la messicana Suor Juana Inés de la Cruz (1648-1695) impone una relazione, o meglio un cortocircuito, tra «le due più grandi poetesse di lingua spagnola». L’intervento di Paz si può trovare adesso in apertura al volume Sillabe di fuoco, curato e tradotto da Matteo Lefèvre per Bompiani, che costituisce la testimonianza più consistente e organica dell’opera poetica dell’autrice cilena uscita fino a oggi in lingua italiana.
Ma cosa può avere giustificato un richiamo così importante e impegnativo? Suor Juana è una mistica integrale e oltranzista della poesia che non teme rivali; e passione, intensità, ardore, incandescenza sia nel sentimento sia nella scrittura, senza dubbio non mancano anche alla sua consorella novecentesca. Tuttavia questo non basta, perché nell’una e nell’altra tutti quei caratteri non raggiungerebbero una piena legittimità se non fossero accompagnati da un’altrettanto energica virtù intellettuale, vale a dire dalla consapevolezza, dal controllo, dal rigore, e allora anche da quel distacco, da quella fortezza, da quella perfidia formale che la legge della composizione poetica sembra richiedere per accedere a un qualche grado di verità. «Voce virile», ha detto non a caso Paz, per precisare poi subito: «Voce di signora». Il titolo dell’antologia è assolutamente appropriato, ed è tratto da una sequenza di versi che dice molto al riguardo: «Quella stessa parola lei pronuncia,/ è tutto ciò che ha avuto e con sé porta,/ e grazie alle sue sillabe di fuoco/ lei può vivere fino a quando vuole». Leggendo queste poesie viene in mente una famiglia di scrittrici che hanno saputo unire un grado massimo d’intensità emotiva o spirituale (potremmo anche dire: d’autenticità interiore) a un’affilatissima autocoscienza espressiva. Una famiglia che annovera poetesse come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, Ingeborg Bachmann e Christine Lavant, Sylvia Plath e, più indietro e forse inarrivabile, Emily Dickinson.
Era nata in un piccolo centro del Cile settentrionale e rurale. Si chiamava in realtà Lucila Godoy Alcayaga, ma scelse molto presto, quando già era sulla strada della poesia, il nome d’arte di Gabriela Mistral per omaggiare i due poeti allora più amati: Frédéric Mistral e il nostro Gabriele d’Annunzio. Questo suo richiamo al poeta-vate non deve sorprendere, perché l’idea della necessità superiore dell’ispirazione, del verticalismo e dell’assolutezza della voce poetica rimarrà una costante lungo tutto il corso della sua storia di poesia, divenendo perfino più sonora e invadente quando, negli ultimi libri, l’impegno su tematiche per altro sacrosante diventerà in certi casi più solenne e meccanico.
Pur se tra continue difficoltà dovute all’attrito con le istituzioni governative e accademiche (per le sue idee, per la sua formazione non regolamentare), inizia molto presto l’attività d’insegnamento. In pratica, era un’insegnante nata. Anche nella sua poesia, almeno dal terzo libro in poi (Tenerezza, del 1924: una raccolta di deliziose fiabe e filastrocche in versi), una vena pedagogica è quasi sempre presente. Un’autentica «pedagogia militante», la definisce Lefèvre. Certo è che i continui spostamenti dovuti proprio all’insegnamento la portano a toccare con mano il ventre profondo della società cilena: la povertà delle campagne, l’analfabetismo, la necessità di un’educazione non di superficie, la condizione dei bambini e, in particolare, lo stato di minorità imposto alle donne. Rimarranno sostanzialmente questi i suoi temi fondamentali, non importa se legati alla storia personale e familiare, a quella del Cile, o a un’idea complessiva del retaggio e del destino, quasi un’immagine ideale, del Sud America (così soprattutto negli ultimi due libri: Lagar del 1954 e Poema del Cile, uscito postumo nel 1967; Gabriela muore nel 1957 a New York, dove viveva da alcuni anni con la sua compagna, la scrittrice Doris Dana).
Saranno proprio i riconoscimenti ottenuti dalla sua poesia a consentirle di regolarizzare e rendere tanto più incisiva la sua attività pratica e teorica di educatrice (o emancipatrice), non solo in Cile, ma anche negli Stati Uniti, in Europa e in vari altri Paesi dell’America latina, primo fra tutti il Messico. Dai primi anni Trenta, come console del Cile, viaggerà moltissimo, anche se non nell’Italia fascista, a cui risultava sgradita per opinioni e scelte di vita. Mentre con il secondo dopoguerra (il 1945 è anche l’anno in cui le viene assegnato il Premio Nobel per la letteratura) proprio l’Italia diventerà una delle sue sedi privilegiate.
Guardando di scorcio il suo intero percorso poetico, è possibile riconoscere una specie di svolgimento inverso rispetto a quello della vita. Questa, infatti, allargandosi come a cerchi concentrici sembra allentare fino quasi a spezzarlo il legame con il luogo particolare, la particolarità tellurica, l’idiosincrasia di ciò che è individuale, a tutto vantaggio di una visione sempre più internazionale e cosmopolita delle vicende umane. Quasi a compenso, il movimento della poesia procede nella direzione opposta. Da questo punto di vista, l’apertura e l’intraprendenza espressiva di questa autrice sono state davvero notevoli. Se i suoi primordi poetici si possono infatti riportare alla koinè (questa sì planetaria) del post-simbolismo e del modernismo primo-novecenteschi, i suoi sviluppi successivi recuperano con determinazione sempre maggiore la radice, la memoria culturale e antropologica, le situazioni e il linguaggio della vita comune nella loro più profonda ma mai localistica sacertà. Come ha scritto Roberto Bolaño, «era solo un’aliena che si era smarrita in Cile, in America latina, e che non poteva comunicare con la nave madre perché venisse a recuperarla»