Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2020
Robot nelle fabbriche cinesi in aumento
Cresce l’esercito dei robot: alla fine del 2019, nelle fabbriche di tutto il mondo c’erano 2,7 milioni di automi, il 12% in più rispetto all’anno precedente, con un aumento dell’85% dal 2014, secondo l’International federation of robotics (Ifr) di Francoforte. Lo scorso anno, le vendite hanno rallentato il passo, ma dal 2010, i robot sono più che raddoppiati e secondo alcune stime potrebbero diventare 20 milioni entro il 2030.
A guidare l’avanzata di questa armata è la Cina, che nel 2019 ha installato 140.500 automi (da 57mila nel 2014), aumentando il proprio stock del 21% a 783mila unità. Già oggi, quasi un terzo dei robot nel mondo sono in Cina, saldamente alla guida del processo di automazione. Con un paradosso: il Paese produce meno di un terzo degli automi industriali che utilizza, importandone il 71%.
Il mercato degli utilizzatori è dominato dall’Asia, dove sono concentrati i due terzi dei nuovi robot installati nel 2019. Dietro la Cina, il Paese con lo stock più grande è il Giappone (355mila unità). In forte recupero l’India, che ha installato 26.300 robot nel 2019 (più dell’intero stock del Regno Unito), raddoppiando la dotazione in 5 anni.
Anche gli Stati Uniti importano gran parte dei robot che utilizzano (293.200 a fine 2019, in aumento del 7%), soprattutto dal Giappone e dall’Europa, i principali produttori.
In Europa, i robot in funzione erano 580mila nel 2019 (+7%), con la Germania a fare da locomotiva con 221.500 unità, contro le 74.400 dell’Italia e le 42mila della Francia. In Italia, le vendite di nuovi robot industriali sono aumentate lo scorso anno del 13%, mentre quelle in Germania sono diminuite del 23%.
In termini di «densità», vale a dire di automi installati ogni 10mila lavoratori, Singapore (918) e Corea del Sud (855) guidano la classifica, seguite a grande distanza da Giappone (364) e Germania (346). In Italia sono 212 i robot installati ogni 10mila lavoratori.
Anche la produzione di automi sta subendo la recessione innescata dalla pandemia e secondo Milton Guerry, presidente dell’Ifr, non si tornerà ai livelli pre-crisi prima del 2022-23. Il Covid, si legge nel report World Robotics 2020, «offre opportunità per la modernizzazione e la digitalizzazione della produzione. I vantaggi di aumentare le installazioni di robot rimangono gli stessi: la rapida fabbricazione e consegna di prodotti personalizzati a prezzi competitivi sono gli incentivi principali. L’automazione consente di mantenere la produzione nelle economie sviluppate, o di riportarcela, senza aumentare i costi». Tra il 2011 e il 2016, il costo di produzione di un robot è diminuito dell’11%, mentre il costo del lavoro in Cina è aumentato del 65% dal 2008, nel settore manifatturiero.
L’automazione porta con sé una problematica complessa: la distruzione di posti di lavoro. Le stime sono molto diverse. Un report di McKinsey del 2017 prevedeva tra 400 e 800 milioni di posti persi entro il 2030. Oxford Economics, nel giugno del 2019, offriva numeri molto più contenuti: 20 milioni di posti cancellati dall’automazione, l’8,5% degli addetti del settore manifatturiero mondiale (dal 2000, 1,7 milioni di posti di lavoro sarebbero già stati sostituiti dai robot). Si tratta di stime fatte prima della pandemia di Covid-19, che potrebbe accelerare il processo.
Anche grazie agli investimenti nel campo dell’intelligenza artificiale, l’industria dei robot sta già facendo nascere lavori che prima non esistevano e che sono altamente qualificati. Difficilmente, però, il numero di posti creati per assemblare robot potrà essere uguale a quello dei posti distrutti dal loro impiego nelle fabbriche e nei servizi. Oxford Economics calcola che per ogni automa installato, si perdano 1,6 posti di lavoro. Le conseguenze negative si concentrano su regioni a economia meno avanzata all’interno dei Paesi sviluppati, ancora dipendenti dalla manifattura (dove il tasso di sostituzione passa da 1,6 a 2,2), e sui lavoratori poco qualificati. Rischiano così di aumentare le diseguaglianze e il disagio in una fase di tensioni politiche e sociali già acute.