Tuttolibri, 26 settembre 2020
12QQAFM14 Intervista a Peter Cameron
12QQAFM14
Non ha mai visto una serie tv nordeuropea, Peter Cameron. Eppure, quando ha deciso dove ambientare il suo ultimo, straordinario romanzo gotico, Cose che succedono la notte, con la fantasia – perché, neo Salgari, ama scrivere di posti che non ha mai visitato, come l’Andorra di Andorra e l’Uruguay di Quella sera dorata – è andato proprio lì, sul set tutto neve e ghiacci di piccole gemme come Bordertown e Deadwind. «La mia narrativa nasce dal subconscio, non faccio mai ricerche», specifica lo scrittore sessantenne che ha trascorso gli ultimi sei mesi, lockdown incluso, nel Vermont, preferendolo all’amata New York che così bene aveva affrescato in Un giorno questo dolore ti sarà utile.
Ricorda la prima immagine che ebbe di questo libro?
«Era una giornata di gennaio molto fredda e nevosa e io ero l’unico passeggero in una carrozza vuota. A un certo punto ho avuto la visione di una coppia che viaggiava per boschi innevati in un treno parallelo al mio. Ho pensato, chi sono? Dove stanno andando? Ci ho lavorato per più di dieci anni».
Perché, come location, ha scelto il profondo Nord, quasi l’Altrove per eccellenza?
«Come dice Livia Pinheiro-Rima, uno dei personaggi, poiché il mondo è rotondo non ha inizio né fine. Eppure sul nostro pianeta i poli sono le regioni meno popolate e più difficili da raggiungere. Perciò sembravano il posto giusto dove spedire l’uomo e la donna nella loro ricerca di un figlio. Volevo che viaggiassero il più lontano possibile dalle loro vite normali. Inoltre, non specificando il luogo, speravo che i lettori vi entrassero in contatto non basandosi su una conoscenza pregressa, ma con un atto di completa immaginazione».
"Cose che succedono la notte" mi ha fatto costantemente pensare al concetto di "unheimlich", "perturbante", quella cosa che ci spaventa di più perché sentiamo che, in qualche modo, ci corrisponde.
«Non penso mai in termini teorici o concettuali quando scrivo. Ma ora che me lo dice, mi sembra che la definizione che ne ha dato Freud - "è il nome di tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto e nascosto, ma è venuto alla luce" - sia la definizione perfetta di romanzo, o almeno del genere di romanzi che mi piace leggere e provare a scrivere».
A partire dal titolo, l’oscurità è uno dei pilastri del libro. È qualcosa che la spaventa?
«L’oscurità che permea la storia è sia figurativa che letterale, perché volevo che il mondo esterno del libro corrispondesse al mondo interno del personaggio. Mi fa paura, sì, ma questo non significa che non mi piaccia. Anzi, la desidero. È nell’oscurità che vediamo meglio ciò che è dentro di noi, e l’oscurità è anche ciò che rende il mondo più misterioso e magico: è per questo motivo che i fantasmi si vedono di notte».
Uno dei personaggi più straordinari è Livia Pinheiro-Rima, un’anziana cantante da hotel che veste come una diva degli anni Venti e parla come un oracolo. È ispirato a qualcuno?
«Livia è una mia creazione, ma in qualche strano modo è anche collegata alla mia esperienza: mentre scrivevo l’ho immaginata identica alla grande attrice americana Marian Seldes, che ebbe una lunga e illustre carriera teatrale (recitò anche in Mona Lisa Smile e in Haunting - Presenze, ispirato a L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, ndr). Si esibiva con una passione e una finezza che ricordavano grandi dame teatrali come Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse. La incontrai verso la fine della sua vita quando per lei scrissi una commedia. La sua presenza è rimasta per me indelebile»
Il concetto di «miracolo», ossia il binomio possibile/impossibile, è centrale nel libro. Che cos’è un miracolo per lei?
«Suppongo che un miracolo sia qualcosa che accade e va oltre la nostra comprensione, qualcosa per cui non abbiamo una spiegazione razionale. Penso che gli esseri umani si ingannino credendo di capire completamente come funziona il mondo. Credo alla scienza e la apprezzo, ma sono anche convinto che ci siano cose che non abbiamo ancora scoperto o compreso. Per questo sono sempre aperto a tutte le possibilità. Mi rassicura, anzi, il fatto di non capire fino in fondo. Uno dei motivi per cui scrivo narrativa è che mi aiuta a esplorare e comprendere ciò che non so, a sperimentare ciò che non è mio, ad andare dove non posso andare».
In certi momenti questo romanzo riesce a spaventare in maniera profonda, come un horror. È un fan di quel genere?
«Non mi piace che un libro venga incasellato in un genere, perché preferisco decidere da solo quale deve essere l’effetto che ha su di me: non voglio aprire un romanzo sapendo che sono destinato a essere spaventato, disorientato, elettrizzato o divertito. Da lettore mi sembra limitante e costrittivo».
Il tempo, nel suo romanzo, scorre in modo strano. È d’accordo con le più recenti teorie fisiche secondo cui il tempo così come lo concepiamo in realtà non esiste?
«Sì, penso che la nostra comprensione del tempo sia riduttiva e semplicistica. Una delle cose più meravigliose dei romanzi è proprio il fatto che il tempo possa essere illustrato in modo più complesso e, forse, più accurato. Accelerato o rallentato. Un esempio: nei romanzi non c’è una reale correlazione tra tempo e pagine, 800 pagine possono coprire un solo giorno o diversi secoli».
C’è un’epoca storica in cui le sarebbe piaciuto vivere?
«Come uno che era destinato a scrivere romanzi, spesso desidererei essere nato all’inizio del Novecento, e non nella sua metà, perché credo che i primi due terzi di quel secolo siano stati un periodo migliore per scrivere e pubblicare».
A un certo punto della lettura, ho pensato "forse sono tutti morti, forse è solo un sogno". Questo romanzo ha una genesi onirica?
«È difficile descrivere qualcosa che non capisco fino in fondo. Tutto quello che so è che per me il processo di scrittura riguarda più il pensiero che l’atto dello scrivere. La creazione dei miei libri avviene nella mia testa e la loro scrittura è soprattutto una registrazione di ciò che ho già immaginato. Non sogno i miei libri; i miei sogni sono terribilmente autobiografici, e a me non piace scrivere di me stesso e delle mie esperienze».
A un certo punto la donna dice: "La gentilezza non ha niente a che fare con l’amore. La gentilezza – che parola orrenda! - la riserviamo a chi non amiamo, a chi non possiamo amare". È una cosa forte da dire.
«Ovviamente la gentilezza figura in alcuni tipi di amore, ma non penso abbia molto a che fare con l’amore romantico e appassionato. Possiamo ricevere gentilezza da amici e parenti, ma penso che dagli innamorati vogliamo qualcosa di più raro e dinamico della gentilezza, qualcosa di più onesto e stimolante. Perché sentirsi appassionatamente amati e veramente conosciuti preclude la gentilezza, che è qualcosa che può essere dato a chiunque, e in realtà non ha nulla a che fare con l’amore».
Si descrive come uno scrittore lento. Come vive il tempo che passa tra un libro e l’altro?
«Può essere un periodo molto buio e deprimente, perché sento che la parte più soddisfacente della mia vita è ormai alle spalle e potrebbe non tornare più. Sono sempre più felice quando lavoro a un libro, anche se scrivere è difficile, perché almeno allora sento di essere coinvolto in qualcosa di utile. Sotto questo aspetto, la scrittura è un antidepressivo che però sfortunatamente non può essere prescritto e assunto secondo necessità».
A che cosa sta lavorando?
«A un libro non mio: sto editando Solid Ivory, le memorie del mio amico James Ivory, il regista. Ne ho curato diversi volumi per la mia piccola casa editrice Shrinking Violet Press, e la prossima primavera ne uscirà una versione ampliata negli Stati Uniti e in Inghilterra. Spero verranno pubblicate anche in Italia»