Ci sono mestieri in cui la felicità creativa nasce da quello che sappiamo prendere dagli altri. Da coloro che con cura, dedizione e desiderio osserviamo e spiamo. Alessandro Serra, singolarissimo autore e regista di teatro, chiama "rubare" questa presa furtiva. E la riassume con questa frase frutto di una nostra lunga conversazione: «Le esperienze si rubano, non si trasmettono. La scuola trasmette, la bottega no. Rubare il mestiere senza farsene accorgere, non è quello che Leonardo fa con Verrocchio? Il miglior maestro, diceva Bufalino, non ha allievi, insegna solo ipotesi». Giovane e avvolto da una parvenza di tenebrosità, Serra è un artista che ha trovato nel teatro la forma in cui realizzarsi. Macbettu è la sua opera più nota e di successo. Ha fatto il giro di parecchi teatri del mondo, avuto riconoscimenti importanti e resa più che promettente la carriera di quest’uomo, nato a Civitavecchia ma le cui radici sono sarde.
«Mio nonno era sardo, arrivò in continente con la famiglia, sbarcò a Civitavecchia, si arrampicò sui monti della Tolfa e iniziò una nuova vita, senza però abbandonare le pecore e il formaggio, il suo vestito tradizionale e soprattutto senza dimenticare la lingua madre, il sardo barbaricino. Sono perciò nato nel 1973 a Civitavecchia da un’unione sfortunata di due creature fragili e violente».
Genitori difficili?
«Come a volte possono esserlo i figli. Ma la verità è che, a dispetto di tutto, non sono stato un bambino chiuso, triste e sbattuto in un collegio. Avevo in me la forza sovrannaturale che solo l’infanzia possiede e l’essere stato abbandonato ha alimentato una specie di sorgente di luce che più volte mi ha salvato la vita».
Dicendo "luce", intende il teatro?
«Il teatro è stato anzitutto per me una liturgia. Ho trascorso otto anni della mia infanzia in un collegio cattolico. Il teatro era una pratica naturale, come la preghiera, il rosario, la sospensione silenziosa prima di avventarsi sul cibo. Ogni anno c’era la recita, ci sono foto che mi ritraggono al centro di uno sciame di piccoli orfani e reietti, con un grande mazzo di fiori in mano, forse perché sembravo il meno peggio. Era un teatro senza vita, in cui quelli stonati erano costretti a muovere la bocca e fingere di cantare senza emettere suoni e quelli più storti in fondo, lontani dal proscenio».
Una liturgia spietata, con poca chiesa.
«Una liturgia militare e non sacra, dove tutto era ordine: le stanze, i letti, i gesti, il refettorio, gli esercizi ginnici, gli indumenti numerati. Ma di notte si schiudeva l’altro teatro, quello segreto, tra noi bambini: in una stanza bruciata e abbandonata ci radunavamo, esploravamo i nostri corpi e inventavamo storie di magia e di terrore, e quando la magia arrivava davvero, urlavamo di paura e felicità, ma in silenzio per non farci sentire. Intagliavo con la lametta del temperamatite i pezzi di corteccia che staccavo dagli alberi del giardino e costruivo il mio teatrino di figure».
Questo sfondo l’ha fatta crescere e amare il teatro.
La laurea a Roma e poi?
«Mi ritengo un autodidatta e la mia laurea in lettere è solo l’ultimo dei miei complessi messi a tacere. Non l’ho mai ritirata».
Era una tesi sulla drammaturgia dell’immagine, in
qualche modo sul teatro.
«Cercavo di mettere a frutto ciò che fino ad allora, nei pochi anni di esperienza, avevo capito dell’immagine. Dopo anni di fallimenti m’era parso di intravedere qualcosa dell’immagine che racconta, ma soprattutto dell’immagine che agisce fisicamente su chi guarda.
Provare a penetrare il mistero attraverso la ciarlataneria del teatro».
È curioso l’uso della parola ciarlataneria.
«Céline ha detto che il vero si fa barando in modo giusto. Non era anche lui un ciarlatano della lingua?».
Due punti di riferimento sono stati Grotowski e Kantor. Cosa scoprì con loro?
«Sono due polacchi molto diversi. Grotowski è la prosecuzione naturale del percorso iniziato da Stanislavskij, la sua ricerca artistica è servita anche per indicare una possibilità per l’attore: donarsi completamente, esporre la propria ferita che è la ferita del mondo e condividerla senza pudore con lo spettatore. Quanto a Kantor, lo considero il più grande artista di teatro del ’900. Non è un regista, è un autore che scrive, dirige, edifica i luoghi, manipola oggetti e costumi, crea il suo mondo abitato dai suoi morti incarnati da splendidi attori. I suoi scritti sono stati per me molto preziosi».
Questo per il Novecento, ma non ha mai fatto mistero di amare due autori, molto diversi: Shakespeare e Cechov.
«Effettivamente sono imparagonabili. Uno faceva l’attore e l’altro il medico e, a tempo perso, lo scrittore.
L’opera di Shakespeare si compie nel teatro ed è fatta di teatro: suoni, silenzi, meccanismi, parole, intrecci. Nelle opere di Cechov il teatro va costruito. Ma tutti e due puntano a svelare la natura profonda dell’essere umano».
Secondo lei l’arte e il teatro in particolare, ha questa capacità?
«Certo. È così che il teatro manifesta la sua natura sacra e politica. Perché il prodigio si compia però, lo spettatore non se ne deve accorgere. Le visioni possono, anzi devono, essere pericolose. L’atto del vedere richiede una buona dose di incoscienza, o di coraggio».
Lei è la prova che un’opera allestita e vista migliaia di volte può diventare un esempio di originalità. Come nasce Macbettu?
«Con una sorta di ritorno alle origini. Nel 2006, con il pretesto di fotografare i carnevali della Barbagia, andai a Lula, il paese di mio padre. Non c’era nessun progetto teatrale particolare. Nessuna idea. E poi, improvvisamente, ebbi la visione, inizialmente sonora, l’incedere implacabile del suono dei campanacci dei mamuthones, ma soprattutto il canto a tenore che, si badi bene, è un sostantivo singolare. Un’unica voce antica sprigionata da un coro di uomini che riproducono le forze sonore della Natura. Un teatro pensai in grado di ricongiungersi con gli archetipi e le forze naturali. Macbeth di Shakespeare si prestava a questa impresa. C’era la lingua di mio padre, che sentivo parlare nei paesi che visitavo, così aspra e struggente, da apparirmi come l’unica in grado di far risuonare il sovrannaturale di quell’opera meravigliosa».
Fu anche un modo per riconciliarsi con la figura paterna?
«In realtà le devo confessare che la riconciliazione non è avvenuta. È stato più un dono, o meglio un perdono».
Nella sua testa Macbeth cosa rappresenta?
«È l’ossessione che la modernità vive per il domani. Macbeth ne recita l’epitaffio. Mentre mostra l’incapacità di vivere il presente, ci getta in una frenetica impotenza che ci spinge ad agire costantemente proiettati in avanti. Macbeth anticipa i comportamenti di una società che vuole possedere il tempo attraverso tecnologie che forse ci renderanno immortali ma che di fatto ci stanno divorando l’anima».
È questo il motivo per cui nei suoi lavori la fiaba riveste un ruolo importante, quasi di garanzia del passato?
«Considero la fiaba uno strumento prezioso di conoscenza. E un ponte invisibile verso ciò che abbiamo lasciato alle spalle. In essa ci sono gli archetipi, figure, simboli ma anche intrecci o situazioni squisitamente teatrali».
Forse è uno degli ultimi baluardi in difesa della tradizione.
«La tradizione ha troppi nemici, c’è chi la confonde con la consuetudine. Ho l’impressione che la parola sia così martoriata d’aver perso la capacità di significare.
Elémire Zolla, un autore che amo, ne parlò diffusamente, facendo luce sui luoghi comuni che l’hanno accompagnata. Ai suoi occhi restava l’unica possibilità per sottrarsi al progresso fine a se stesso, senza ritorno, e alla pianificazione totalitaria».
A proposito di parola martoriate, diciamo pure usurate e banalizzate, lei ha scelto a un certo punto della carriera la strategia del silenzio. Allestendo opere che parlassero soprattutto attraverso le immagini.
«Credo che il teatro si compia nel silenzio e nel vuoto.
Ma per attivarlo occorre fare un gran rumore, agitare l’aria, scuotere i sonagli, suonare i tamburi, cantare, incantare, raccontare e poi sospendere tutto in una specie di apnea collettiva in cui spettatori e attori sono un unico corpo, un unico respiro, un unico battito del cuore che è il solo ritmo concesso».
Non c’è un abuso della parola cuore?
«C’è fino a quando non sappiamo metterla in sintonia con il nostro silenzio. Quanto al mio lavoro, ho sospeso la parola perché non sapevamo recitare, ma anche perché ero piuttosto infastidito dagli attori che ansimano in scena con un microfono attaccato alla guancia. L’amplificazione è una pratica antica ma è concessa solo nell’immobilità e ad altissimo volume, come nel teatro greco grazie all’acustica e all’effetto amplificatorio delle maschere o nel caso, direi unico, di Carmelo Bene. Se invece vogliamo fare la prosa ebbene allora ci tocca imparare a usare il diaframma e incendiare il corpo per fare arrivare la voce. Eleonora Duse pare avesse una voce flebile, era il pubblico che non osava respirare per ascoltarla».
A proposito di strategie del silenzio ha dedicato due spettacoli a due artisti diversissimi: Alberto Giacometti e Edward Hopper. Perché?
«Da Giacometti ho imparato che l’arte non si deve nutrire di arte ma di vita. Hopper mi affascinava per l’aspetto narrativo. Mi era sembrato si potessero trarre delle storie da quegli interni: cosa c’è scritto nella lettera che giace tra le mani di quella donna triste? Da dove provengono quelle solitudini? E mi sono accorto che l’unico intento di Hopper era ritrarre la vita interiore e dunque la realtà che dipinge è puramente accessoria, solo un mezzo per sprofondare».
Sprofondare significa anche che il terreno cede.
«È lo sgretolarsi progressivo della superficie. Non a caso i corpi nudi di Hopper scaldano le proprie ferite al sole. E i volti sono maschere, sempre la stessa maschera facciale. E pensare che alcuni insinuarono che non sapesse disegnare. In realtà era un disegnatore straordinario. La sua fu una scelta deliberata, dipingere una maschera, un volto normativo e iconico».
Che cosa c’è sotto la maschera?
«La maschera deve restare vuota, dietro non c’è alcun volto ma solo un vuoto che risuona, almeno nella tradizione dei greci. Mi piace quello che scrive Nietzsche: "Tutto ciò che è profondo ama la maschera"».
Ma della maschera si può avere anche paura. Penso a quella che indossano i mamuthones, da lei utilizzati in Macbettu. Come fossero demoni arcaici. Che sentimento è la paura e perché oggi è così diffuso?
«La paura ha cessato di essere un sentimento ed è diventata un’arma. C’è stato un tempo in cui il rito iniziatico si fondava sulla paura, era un archetipo e bisognava imparare ad avere paura. Oggi si riveste solo di un senso di ostilità».
So di un progetto su Re Lear. Come si distinguerà da "Macbettu"?
«È un progetto troppo grande per poter nascere in questi tempi. Rispetto a Macbettu, diciamo che Lear è ancora più arcaico e primordiale. Non saprei dove ambientarlo se non in Sardegna nuragica o nelle montagne dello Svaneti in Georgia. La lingua come sempre sarà un problema».
Come ha vissuto e sta vivendo questo momento della pandemia?
«In una condizione privilegiata, nel silenzio della natura. Le confesso che non sono ancora riuscito a percepirla davvero. Ho scritto molto e ho addirittura messo su un orto. Eppure, non riuscivo a sentire quel dolore impastato di angoscia, di morti e di sirene. Sapevo che mentre intorno a me la primavera esplodeva spudorata, sull’autostrada viaggiavano camion pieni di morti destinati, guarda caso, a Civitavecchia, la mia città, discarica d’Italia, dove sarebbero stati bruciati. E ancora una volta si impone per me il silenzio, la sola cura efficace che ci è rimasta».