Volevo focalizzarmi proprio su questo tema. Dal momento che questo libro storicizza il tuo percorso artistico attraverso le tue canzoni e visto che sulla storia hai scritto un brano bellissimo e so che è una tua passione. L’hai anche studiata all’università, giusto?
«Sì, dovevo laurearmi con Renzo De Felice ma poi non se ne fece niente, la musica mi ha preso la mano. E pensa che all’incirca vent’anni fa ho pagato di nuovo tutte le tasse arretrate perché mi era tornata la voglia di laurearmi, ma poi non ho scritto nemmeno un pezzo di tesi».
Però la passione per la storia è rimasta.
«Soprattutto per quella del fascismo su cui continuo a leggere un po’ di tutto».
Infatti se andiamo a prendere i testi di questo libro, già la seconda canzone di "Alice non lo sa", il tuo primo album che risale al 1973, è un pezzo sulla storia. Si intitola "1940" e parla dell’entrata in guerra dell’Italia. Si tratta di un ricordo reale di tua madre?
«Esatto. Volevo sapere come era cominciata quella che successivamente si rivelò una catastrofe ma che, guardando i filmati d’epoca, sembrava aver segnato un momento di gioia collettiva. Facevano vedere piazza Venezia strapiena di gente festante. Allora chiesi a mia madre, che nel ’40 aveva ventisei anni, e lei mi disse che non era andata esattamente così: tra la gente in realtà c’era anche molta preoccupazione e paura e a pochi poi piaceva quell’alleanza con i tedeschi...» .
Il senso della canzone credo sia far vedere come si entra in una guerra senza rendersene conto. Un insegnamento sempre attuale, visto che siamo circondati da conflitti sia reali, che economici, come quelli tra Stati Uniti, Cina e Russia.
«Mah, non è che volessi insegnare niente a nessuno, una canzone non serve a questo. Resta il fatto che l’Italia entrò in guerra quando sembrava già stravinta dalla Germania pensando che sarebbe durata pochissimo, e fece subito la sua bella figura andando ad attaccare una Francia ormai inerme che peraltro venne subito a bombardare la Liguria. Si sarebbe dovuto capire immediatamente che le cose non erano come ci avevano raccontato, che la guerra sarebbe durata a lungo e sarebbe stata difficile e dolorosa per la popolazione».
1974: nel famoso disco con la pecora in copertina c’è un altro pezzo importante, "Cercando un altro Egitto".
«È stata una delle mie prime canzoni "sconclusionate", con una serie di tagli e di immagini abbastanza oscure, tipo le famose "gelaterie di lamponi" che alludevano ai forni di Auschwitz. Ma ero convinto che ci si poteva prendere il lusso, anche in una canzone, di usare un linguaggio non immediatamente comprensibile. Da qui la critica un po’ sgangherata di "ermetismo" che mi venne rivolta. In realtà mi veniva naturale scrivere così, fare quello che in letteratura o nel cinema era normale.
Uno dei film che da ragazzo mi impressionò di più fu 8 ½ proprio perché lì c’era questa frantumazione del discorso logico, della grammatica del racconto, un racconto che diventa una serie di storie accavallate, oniriche, apparentemente slegate. Alcune delle quali sfuggenti anche se l’hai visto dieci volte».
Però alla fine un senso viene fuori...
«Usavo il linguaggio: un "ufficiale uncinato" mi sembrava rendesse meglio l’idea di un "ufficiale nazista". Questo linguaggio che definisco "frantumato" o "frantumabile" è poi entrato anche nelle canzoni di altri autori. Anzi direi che esisteva da prima. Pensa a uno come Mogol, che scriveva tra l’altro per un pubblico più generalista. Cose come: "Non piangere salame dai capelli verde rame" o "continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri"».
Passa ancora solo un anno, è il 1975, ed ecco che anche in un disco amatissimo dal pubblico come "Rimmel", salta fuori "Le storie di ieri" in cui citi Salò, dicendo che "Mussolini ha scritto anche poesie" e che "a giocare col nero perdi sempre". Oggi si gioca col nero usando i social, le "fake news" e spesso si vince.
«La soluzione del problema alla fine è sempre nell’intelligenza e nella buona fede delle persone. Un tempo i discorsi da bar restavano al bar, oggi invece vengono amplificati e spesso falsificati: è un fenomeno che è sempre esistito. Anche le fake news fanno da sempre parte della propaganda: la donazione di Costantino, i Protocolli dei savi di Sion, la "disinformazia"… C’è chi ci crede, ma cosa puoi farci? Ci sono quelli che dicono che la terra è piatta? Lasciamo che ci camminino sopra fino a che cascano di sotto!».
Questo ci porta esattamente al tuo testo cardine su questo tema, "La storia" appunto, una delle tue canzoni più famose, contenuta nell’album "Scacchi e tarocchi" del 1985, dove tu dici delle cose molto ottimiste come "è la gente che fa la storia/ quando si tratta di scegliere e di andare/ te la ritrovi tutta con gli occhi aperti/ che sanno benissimo cosa fare"…
«Beh, certo, queste parole non trovano molto riscontro nella storia del ’900, non c’è dubbio. Ma una canzone è una canzone, non un manuale. E comunque ci sono stati, anche nella storia recente, momenti in cui l’ottimismo di questo brano sembra giustificabile. Ma esprime una speranza forse, più che descrivere una realtà di fatto».
Insomma la storia siamo noi oppure no?
«Nì. Il discorso si può allargare a dismisura: dovremmo parlare anche della problematicità del concetto di democrazia, di quanto sia storicamente cambiato, di quanto abbia potuto portare a esiti indesiderabili come Hitler che prende il potere per vie istituzionali... La verità sulla storia, su quello che abbiamo voluto chiamare progresso o, in maniera più laica, sviluppo, è qualcosa che non si può mettere in una canzone. La storia è comunque sempre in crisi con se stessa. È qualcosa che va sottoposto a continue revisioni. Non ho niente in contrario alla parola "revisionista", spesso scioccamente abbinata alla parola "negazionista". La storia non è una scienza ma semplicemente il tentativo di raccontare il passato attraverso l’acquisizione di una serie di dati in continuo movimento, di fonti in continua evoluzione. Cambiano i metodi di ricerca, cambiano i ricercatori, gli approcci, si scoprono territori inesplorati. Sarebbe impossibile oggi scrivere un libro sulla Rivoluzione francese come si sarebbe fatto cent’anni fa. Per tornare alla canzone direi che, se c’è quello che una volta si sarebbe chiamato "il messaggio", è semplicemente che tutti gli individui sono coinvolti nei processi storici, anche quando non lo sanno o non lo vogliono. Ma vedi come diventa più brutta una canzone quando te la spiego?».
Più che spiegazione direi che è una riflessione sul brano: non c’è dentro un po’ di ottimismo della volontà?
«Magari sì, anche se è temperato da alcune espressioni abbastanza crude come la storia che "entra dentro le stanze e le brucia". La storia non è un film con l’happy
ending, non finisce sempre bene».
Secondo me è più facile condividere l’immagine che la chiude: "siamo noi questo piatto di grano".
«Difficile parlare di un singolo verso: certo l’umanità mi sembra in continua rigenerazione di se stessa, magari non sempre virtuosa: semi che poi danno dei frutti in generazioni successive che magari cadono lontano dall’albero e contraddicono ciò che è stato fatto negli anni precedenti. Rivoluzioni, reazioni, riflussi. Cerchiamo delle verità nei libri ma non è semplice: c’è per esempio una storiografia "di destra" e una "di sinistra" spesso contrapposte l’una all’altra. Orientarsi è difficile, anche se la voglia di farlo per chi ha il pallino della storia è sempre molto forte. Forse nella canzone c’è anche un po’ di questo smarrimento che poi però si risolve nell’immagine finale, del "piatto di grano", che allude alla rigenerazione di quello che siamo: delle nostre idee, delle nostre capacità critiche, anche dei nostri corpi…».
Forse allora sarebbe più giusto dire "la storia siete voi" pensando al germinare delle nuove generazioni.
Parlo per me: credo non sia facile essere ottimisti oggi.
«Non sono un pessimista. Sono solo un po’ più scettico di una volta. Anche se continuo a osservare tutti gli altri con rispetto e anche con affetto, anche quelli con cui non vado d’accordo, anche quelli che vanno alle manifestazioni contro le mascherine, tanto per dire. Non invito la gente a cena in base alle sue idee politiche: è l’intelligenza che importa, non l’appartenenza. Sono solo un po’ più scettico sul futuro prossimo e non passo il tempo a pensare né al tempo che fugge né a quello che verrà. E scopro a volte di avere poca curiosità nei confronti degli altri, a differenza di un tempo».
Quali sono le persone che di solito ti incuriosiscono?
«Quelli che si sforzano di ragionare, che leggono qualche libro o guardano qualche film, che possono raccontare delle cose e che sono anche curiosi se dico qualcosa io.
Quelli con cui si può stabilire un dialogo intellettuale».
Anche se agli intellettuali hai riservato spesso una certa ironia.
«A volte però persino gli intellettuali sono capaci di un dialogo intellettuale».
Adoro questa risposta. Che però richiama subito un’altra domanda: cos’è per te un dialogo intellettuale?
«Non frequentare gli intellettuali di mestiere, ma fare appello all’intelligenza e alla cultura tua e del tuo interlocutore, chiunque sia, per esaminare qualsiasi cosa, senza preconcetti uscendone divertiti se non arricchiti».
Comunque ce l’hai con gli intellettuali, e anche con i poeti, da tempi non sospetti: "I poeti per l’estate", un ritratto impietoso, è sempre del 1985…
«Mah, dicendo "poeti" volevo riferirmi genericamente a un certo mondo culturale e alle sue pubbliche epifanie.
La strofa più diretta è quella che dice "quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici, sportivi ed eleganti/ pubblicare loro stessi come fanno i cantanti".
Ancora adesso trovo meraviglioso vedere arrivare in un talk show in cui si sta parlando di Covid o di immigrazione un politico o uno scrittore che discettano blandamente sul tema e poi alla fine tirano fuori la copertina del loro ultimo e spesso perdibile libro. Ecco, io allora, invece, per vendere la mia musica sono orgoglioso di andare a fare un pezzo in playback all’Arena di Verona (il riferimento è all’esibizione dello scorso 2 settembre insieme a Venditti dove hanno interpretato
Canzone
di Lucio Dalla,
ndr)
».
A proposito, non hai usato apposta l’armonica quando doveva esserci per demistificare il playback?
«No! Stavo solo seguendo il testo con attenzione e me ne sono dimenticato. Infatti mi veniva anche un po’ da ridere, credo si veda. Pensare che funzionava così bene!».
Tu e Venditti avete fatto un omaggio a Dalla, e Tiziano Ferro, a sua volta, ha fatto un omaggio a te: ti piace la sua versione di "Rimmel"?
«Nel caso di Lucio non è un omaggio, non ne ha bisogno.
Antonello e io volevamo solo cantare una bella canzone e quando pensi a una bella canzone spesso finisce che c’è di mezzo Dalla… Quanto a Tiziano Ferro la sua versione mi piace molto. Senza farmi il verso ha tenuto molto presente l’originale, citando alcune frasi melodiche del pianoforte di allora, almeno così mi sembra. E poi sono sempre felice quando qualcuno canta le mie cose e le fa sue come ha fatto lui. Anche se le dovesse stravolgere. Ma non è questo il caso. D’altra parte il primo a stravolgere le mie canzoni sono io, e qualcuno protesta pure!».
Tornando all’idea di storia che ritorna nella tua opera, uno dei dischi più significativi a riguardo è "Il fischio del vapore" che hai fatto nel 2002 insieme a Giovanna Marini con brani che vanno da "Sacco e Vanzetti" a "Bella ciao". Com’era nata questa collaborazione?
«Una sera avevo cantato in un concerto a Roma
L’attentato a Togliatti e il risultato mi era piaciuto molto.
Così mi è venuta l’idea di fare un intero disco di canzoni popolari, ma da solo mi sembrava difficile, mi serviva un suono e in qualche modo anche una sorta di legittimazione: e allora ho capito che non si poteva fare un disco simile senza Giovanna Marini. Quando parecchi anni prima avevamo inciso insieme L’abbigliamento di un fuochista le nostre voci funzionavano! Così sono andato a casa sua con un vassoio di marron glacé per corromperla e le ho proposto la cosa: un disco di musica popolare suonato con la mia band... Lei lì per lì è rimasta un po’ stupita e mi ha detto che voleva sentire prima cosa ne pensava Ivan Della Mea. Qualche giorno di attesa e poi venne sciolta la riserva. Anche Ivan, nonostante la sua figura legata alla canzone militante, si mostrò in quel caso assolutamente non dogmatico e aperto alle contaminazioni e alle sperimentazioni. Capì subito che il valore del progetto era quello di suonare le canzoni popolari di una volta con gli strumenti popolari di oggi.
Vorrei ricordare qui tra l’altro due sue canzoni bellissime e molto importanti per me: Cara moglie e El me gatt ».
A proposito di politica, di recente ha fatto stranamente scalpore un fatto più che risaputo, ovvero che Guccini non avesse mai votato Pci, tu invece…
«Io al contrario ho sempre votato Pci e credo che lo rifarei visto quelle che erano ai tempi le scelte opzionabili».
Anche se "Il signor Hood" in "Rimmel" è dedicato a Marco Pannella. Come mai?
«Era il tempo del referendum sul divorzio su cui ero ovviamente d’accordo e poi Pannella mi piaceva come cervello e come cuore, era un uomo di grande fascino.
Quella dedica un po’ criptica in epigrafe a una canzone del ’75, "A M. con autonomia", voleva sancire comunque fin da allora una distanza culturale. Quello che non riuscivo a farmi piacere erano certi aspetti messianici della sua "radicalità", per non parlare della spettacolarità di certe iniziative, tipo la candidatura di Cicciolina. Ma rimane in me un grande affetto nei suoi confronti e un grande rispetto per la sua onestà intellettuale anche se una divaricazione politica c’è sicuramente stata, così come ci sarebbe stata col Pci se fosse stato schierato con Mosca, con il marxismo-leninismo. Ma in Italia non era così: il Pci di quegli anni era un partito riformista».
Tornando ancora alla grande storia che si incrocia con quella personale, una volta Giorgio Bocca scrisse in un suo libro che tuo zio, partigiano ucciso da partigiani, era stato "l’uomo sbagliato nel posto sbagliato"…
«Una lettura assolutamente ingenerosa e superficiale della vicenda che portò all’uccisione di mio zio, Francesco De Gregori (Bolla) comandante della brigata Osoppo. Per questo scrissi a Bocca una lettera e poi lo andai a trovare a Milano. Mi ricevette e gli portai documenti e lettere private che testimoniavano la battaglia che mio zio, nell’ambito della lotta di resistenza ai nazifascisti, conduceva in Friuli in difesa dei confini italiani contro i tentativi di annessione compiuti dai partigiani sloveni con la connivenza delle brigate partigiane italiane legate al Pci. Lui guardò quello che avevo portato e poi mi disse: "Stia tranquillo, suo zio non era un traditore". Grazie, questo lo sapevo già, era successo esattamente il contrario: traditori semmai potevano essere definiti i suoi assassini, alcuni dei quali dopo essere stati condannati a varie pene nel dopoguerra erano scappati in Jugoslavia. Insomma, come dicevo all’inizio, c’è una visione di destra e una di sinistra della storia. Bocca, sicuramente uno storico di livello ma anche di dichiarata appartenenza, non arriva a negare la verità ma la condensa frettolosamente in tre righe e in una frase non priva di ambiguità. Per questo motivo pensai di farglielo notare, anche se non credo che lui poi non ci abbia dormito la notte».
Una cosa importante nella tua opera è proprio l’attenzione per i vinti, che siano i fascisti ne "Il cuoco di Salò", o i terroristi di sinistra in "Scacchi e tarocchi".
«Credo che una parola corretta possa essere "pietas", la pietà per il nemico sconfitto o ucciso. Io non ho mai preteso di fare un’analisi storiografica né con Il cuoco di Salò né in Scacchi e tarocchi. Sono schegge, facce, visioni, tentativo di penetrazione di un mondo personale nella storia. Questo può fare un’opera letteraria o un’opera d’arte. Cito sempre Guernica a proposito perché è l’esempio di tutto ciò: anche lì ci sono persone dalla parte "giusta" o dalla parte "sbagliata", ma l’opera trascende tutto questo: è la storia di un massacro, di una perdita, di morti, di feriti».
Parlare di "pietas" mi fa venire in mente A pa’, la tua bella canzone dedicata a Pasolini, che mi sembra il modo migliore per capire la differenza tra la genia degli intellettuali da tv a cui accennavi prima e quando invece "tra i poeti ne trovi uno vero…".
«È una canzone abbastanza poco conosciuta ma che amo molto, soprattutto per una citazione...».
Che tu riadatti in forma canzone: "E voglio vivere come i gigli nei campi/ E sopra i gigli dei campi volare".
Una meraviglia. Ma in Italia secondo te oggi si riesce ancora a fare cultura? E quali sono i rapporti fra il mondo della cultura e quello della canzone?
«Direi pessimi: nonostante che nelle canzoni si finisca sempre per trovare qualcosa di importante di noi stessi, nonostante l’esistenza di gente come Paoli, De André, Vasco e Paolo Conte solo per dirne alcuni, nonostante il fatto che si potrebbe scrivere una storia d’Italia solo passando attraverso le canzoni, chi fa il mio mestiere viene guardato in cagnesco dalla cultura ufficiale. E non dico questo per un complesso di inferiorità nei confronti di chi si occupa di altre forme artistiche, ma mi ha molto colpito il fatto che Franceschini, che giustamente va ad inaugurare la Mostra del cinema di Venezia, non abbia sentito il bisogno di mandare una parola di saluto al mondo della musica che a settembre, con un enorme sforzo di tutti, ha provato a ripartire con due grandi eventi come i Music Awards e Heroes. La canzone è a tutti gli effetti letteratura: può essere buona o pessima, come un film o un libro. Ma come dice Dylan in un pezzo che ho tradotto "L’uomo malato in cerca di cura... cerca nell’arte e nella letteratura la sua dignità". Letteratura e arte sono da sempre cura e salvezza e dentro ci sta tutto da Jacques Brel a Billie Holiday, da Corto Maltese a Paperino».
A proposito di lettura, che cosa hai fatto durante il lockdown? Sei riuscito a leggere? Vedo qui il libro di Tatti Sanguineti, "Il cervello di Alberto Sordi"…
«Ho passato quel periodo in buona parte a riguardare tutti film di Alberto Sordi che sono riuscito a trovare».
Non rappresenta un po’ l’italiano che vorremmo cercare di non essere più come diceva Nanni Moretti?
«Ma Sordi l’ha solo interpretato quell’italiano, non l’ha mica promosso. No, io non mi associo alla visione negativa del Nanni Moretti di "Ve lo meritate Alberto Sordi!". Al contrario, solo i migliori di noi si meritano Alberto Sordi! ( ride) ».
E poi vedo ancora libri di storia…
«Sì: Una vita di Galeazzo Ciano. Ma ho letto e leggo le cose più varie. Graham Greene per esempio, di cui conoscevo solo Il potere e la gloria: ho scoperto che avevo due Meridiani con i suoi romanzi e mi sono letto quasi tutto. Ma come vedi ci sono anche Grisham e Winslow. Non vorrei passare per un intellettuale! Anzi, scusa, abbiamo parlato di storia, di politica, di cultura, io però ho fatto anche tantissime canzoni d’amore: perché nessuno mi chiede mai di quelle?».
Ecco quale sarà la prossima intervista.