Sette, 25 settembre 2020
Intervista a Pierfrancesco Favino
Pierfrancesco Favino ha coprodotto e interpretato Padrenostro, il film in cui il regista Claudio Noce racconta una storia vissuta. Suo padre, funzionario di polizia, fu colpito a Roma nel 1976 da un commando terrorista. Rimase ferito ma un poliziotto e uno degli attentatori furono uccisi nel conflitto a fuoco. Il film è raccontato dal punto di vista di Valerio, figlio del funzionario. Abborda lateralmente il terrorismo per raccontarne le ferite più profonde, quelle nelle vite di chi è restato. Padrenostro racconta un viaggio immaginario e reale del bambino che cerca, per poter crescere, di ricomporre i frammenti di un mosaico andato all’aria con dei colpi d’arma da fuoco sparati una mattina sotto i suoi occhi. Favino è il padre e la sua interpretazione è asciutta, severa, completa. Forse questa stagione — con il successo dei film di Amelio, Muccino, Bellocchio e con questa interpretazione — è tra le più belle della sua avventura umana come attore. E non per caso è stata consacrata, a Venezia, dalla Coppa Volpi che viene assegnata al miglior attore. Un premio per il film e per la splendida carriera di Favino.
Quando cominci a pensare che la tua vita sarebbe stata quella dell’attore?
«Mah, che la mia vita sarebbe stata quella dell’attore, in verità mai. Che volessi recitare, da piccolissimo, a sette, otto anni».
Quale fu la scintilla?
«Ho sempre avuto una grandissima passione per Totò, tutte le volte che c’era un suo film, in televisione, per me era più divertente dei cartoni animati. I miei mi portavano a teatro al Gianicolo a vedere le marionette. La mia vita si è subito popolata di storie altrui. Ero l’ultimo di quattro figli, godevo di briglia sciolta. E così, essendo il più piccolo, per farmi spazio mi ero ritagliato il ruolo dell’intrattenitore della famiglia».
Cosa volevi fare da grande?
«L’attore comico, credo di avere addirittura un tema di terza elementare in cui dicevo che volevo fare l’attore comico. E l’ho sempre pensato, anche quando sono entrato in accademia. Ma anche quando ero lì avrei voluto far ridere gli altri».
Cosa faceva tuo papà?
«Mio papà era un rappresentante di commercio, di legnami. Era un uomo curioso, leggeva il giornale, i libri, suonava il pianoforte, a casa mia nell’aria c’era sempre musica. Insomma sono cresciuto in un’atmosfera aperta, viva, piena di varie curiosità. Vengo da una famiglia classicamente Anni ‘60, con la scoperta e l’ambizione al consumo ma anche con il rigore dello studio, della disciplina, dell’educazione. Vivevamo, dimmi tu i paradossi della vita, proprio nella strada in cui, nel film, abita Valerio, il protagonista. E in cui vede l’attentato. Per me è stato uno choc perché avevo gli anni di Valerio, quando hanno sparato a suo padre».
Pierfrancesco Favino: «Chiesi a papà d’esser sé stesso con me. Lui accettò»
Ti ricordi il primo libro che hai letto?
«Una riduzione de Le mille e una notte ».
Caspita, hai cominciato leggero...
«Mio padre la domenica mi portava ad acquistare libri: andavamo prima al Metropolitan a vedere i cartoni e poi lì vicino, a piazza San Silvestro, c’era una grandissima libreria, una specie di outlet. Lui prendeva i suoi volumi e io potevo sceglierne uno. Di solito erano riduzioni per bambini di classici. Robin Hood, Ivanhoe e Le mille e una notte che aveva anche un che di piccante... E mi ricordo, mi si è stampata in testa, una edizione della Divina Commedia con le illustrazioni di Doré. Ero avido di storie e personaggi, di immagini e notizie. I primi quotidiani li ho letti a sette anni».
E invece il primo film che hai visto te lo ricordi?
«Forse Franchi e Ingrassia o Trinità. Con la zia di un amico, come tutti, Ben Hur. Il primo film che però ho visto da solo, cioè non accompagnato dai miei genitori ma da mia sorella è stato Ricomincio da tre al Gregory, ora chiuso, come tante, troppe sale. Ma a mia madre piacevano i gialli che tutti i giovedì trasmettevano in tv. Ricordo che quelle immagini mi attraevano e spaventavano. Sette storie per non dormire, Fantomas .... Quelle storie sono entrate in me e mi hanno fatto capire che, in una vita, il racconto ci stava bene».
Altre storie. Cioè non vivere solo la propria vita...
«Ma anche un po’ ripararsi, e questo ha un’attinenza molto stretta secondo me con il nostro film. Cioè, la prima cosa che mi ha colpito quando io ho letto questo soggetto è stato il fatto che io appartengo a quella generazione che, negli anni della violenza, si pensava non vedesse nulla, non sentisse e capisse nulla. Faccio parte di una generazione che ha respirato quella tensione e che quindi da qualche parte doveva nascondersi, doveva trovare sollievo. Io l’ho trovato nella finzione, nelle storie, nell’inventare altri mondi. Ma è in quei giorni che nella mia vita la paura si è trasferita dai gialli televisivi o dalle storie lette, nella realtà, persino quella del mio quartiere. Tutto era vicino, troppo vicino...»
Tu eri piccolo, nei giorni di via Fani.
«Il rapimento di Moro, per un bambino di otto anni, è stato un giorno strano, difficile da capire, per certi versi, paradossalmente, persino bello».
Raccontami quel giorno.
«Mia madre mi viene a prendere alle 10.30, mi porta a casa. Mamma solo per me, strano. Tutti i bambini escono da scuola, strano. Nel percorso verso casa strade vuote, camionette, strano. Si arriva a casa, mamma cucina. Piano piano iniziano ad arrivare gli altri, parlano di cose che non capisco. C’è tensione nell’aria. Moro, l’hai sentito dire ma non hai capito bene, è stato rapito. Ma che vuol dire? Brigate rosse boh, in televisione non fanno i cartoni. C’è qualcosa che non va. Io me lo ricordo come un giorno in cui è successo qualcosa di speciale, ma non di silenzio. I bambini dormono è una frase, io ricordo perfettamente tutte le discussioni ascoltate dalla mia camera, quando mi mandavano a letto. Ricordo i discorsi dei miei genitori, i loro amici, le giocate a carte, ciò che dicevano di te. Quelle parole sbirciate di nascosto contribuiscono a costruire il tuo carattere, la tua visione del mondo e degli altri».
Nel film c’è il crollo del mito di un padre.
«Quando tuo papà non è più un supereroe in un momento in cui tu hai bisogno che lo sia, subisci un tradimento enorme, un tradimento involontario... Ora se qualcosa dall’esterno interviene improvvisamente in una realtà codificata e serena come quella raccontata all’inizio del film e ti distrugge il mito di tuo padre cosa accade? Il film in fondo racconta anche una storia d’amore tra un padre e un figlio, che è la stessa che io posso avere avuto per mio padre. Io ho sofferto moltissimo nel momento in cui ho scoperto le défaillance di papà. Fino a quando non ho avuto il coraggio di dirgli: “Io voglio che tu sia chi sei, non quello che tu vuoi essere per me”. È stato motivo di scontro ma, fortunatamente, ho fatto in tempo a dirglielo e lui lo ha accettato».
Nel film compare prepotentemente la figura del doppio. Reale e immaginario si confondono.
«Io ho avuto un amico immaginario. Marco. Ero circondato da donne e la sorella più vicina a me aveva cinque anni di più per cui giocava di rado con me. Così ad un certo punto me lo sono costruito. Portavo questo Marco sempre con me e costringevo mamma a preparare doppie merende, doppi pranzi, doppie cene. Per fortuna quando mia madre è andata a parlare con uno dicendo “Ma è tutto a posto?” le è stato risposto “Sì, è una fase importante”. E altra fortuna ha voluto che io andassi poi all’asilo e trovassi un poverino che si chiamava Marco per cui le due dimensioni si sono riunite in una sola».
Come Harvey di James Stewart, il coniglio bianco...
«Però nel nostro film quel personaggio immaginario, forse immaginario, ha anche un significato politico».
È un messaggio di comprensione, di curiosità interiore.
«Faccio parte di quella generazione che era bambina, allora. Ma c’eravamo. Quello che le generazioni precedenti non accettano sia vero. Mi dispiace, ma noi c’eravamo. Ci mettevamo le borse di Tolfa finte, ci vestivamo andando a rubare i cimeli dagli armadi delle sorelle o dei fratelli per poter appartenere ad un sentimento, ad un’atmosfera che non esistevano già più. Eravamo guardati come dei mascherati, degli imitatori. Io al massimo ho fatto “la pantera”, che posso aver fatto? Quando il bambino del film dice “Non mi importa chi sei”, la verità è che purtroppo o per fortuna è così. Il valore politico della storia è di oggi, non degli anni Settanta. Ma il film parla anche d’altro: della crescita di un bambino. Il suo diventare, da figlio, uomo».
I padri si uccidono?
«Dobbiamo capire cosa hanno portato quelle ideologie, quella furia generazionale. Parlo anche del cinema: siamo così sicuri che aver ucciso i padri sia stato un bene? Io oggi vengo dall’esperienza del film su Craxi. Mi sono chiesto: esiste una laicità di pensiero in Italia? È possibile affrontare alcuni temi senza ricadere in una dinamica del passato? La verità è che la mia generazione non è che sia disinteressata alla storia italiana, anzi. Ma se anche oggi, ma anche dove avesse preso posizione, l’ha presa postuma. Una posizione cambia nulla. Se ai giorni nostri ti dico sono un brigatista, sono un democristiano, la mia posizione non cambia nulla, non incide su una storia che è dietro le nostre spalle».
Questo vale anche per il significato politico del film. Due ragazzi, diventati uomini, separati dalla violenza, si cercano...
«Sono figli di quella violenza, non ne sono stati attivi protagonisti. Ne hanno vissuto le piaghe, non le hanno prodotte. Per questo possono cercarsi, immaginarsi, parlarsi. Sono figli di un tempo diverso della storia».
Nel film non esistono agenti collettivi. Tutti sono soli, nella grande storia...
«Alessandro Gassmann una volta ha detto che noi facciamo parte di una generazione silente. Non penso sia casuale che siamo la generazione che si è inventata il www. Non avendo avuto l’opportunità di aggregarci in grandi sistemi politici o culturali fatalmente abbiamo trovato il modo di mettere in relazione le nostre individualità. Chi di noi è riuscito a fare aggregazione l’ha fatta rispetto a delle passioni, ma non più passioni politiche. Io ero presente a pochi metri dal Raphael il giorno delle monetine a Craxi. Avevo diciannove anni, a cosa vuoi credere dopo? A cosa ti è consentito di credere? Faccio parte di una generazione che è stata definita esclusivamente come consumista. A noi è stato destinato solo il ruolo di acquirenti. A noi non è stato consentito il coraggio di voler cambiare il mondo perché non erano i nostri padri ad impedircelo, erano i nostri fratelli. E con tuo fratello puoi fare due cose: essere azzittito o imitarlo. Ma l’imitazione era una caricatura. Le condizioni per essere ciò che lui era stato, non esistevano più...».
Nel film uno dei momenti più belli per me è quando il bambino prende la cinepresa Super 8, la usa e poi ci soffia sopra come se fosse un’arma. Questa generazione è là, nella storia dell’umanità che vive nel tempo della riproducibilità assoluta e immediata dell’esistente. Non ci vorrebbe un porto d’armi per una potenza simile?
«Oppure che si impari a usare le tecnologie e si insegni a capire e utilizzare il cinema e le immagini. Non molto di più, servirebbe, e io mi metto a disposizione. Non vorrei mai essere adolescente oggi, in questo momento storico. Non volevo esserlo pre Covid, ancora di meno ora. Prima della pandemia c’era qualcuno che ti può far saltare in aria, poi non puoi più respirare, poi non puoi toccare le persone. E poi? Io vorrei che per effetto dell’emergenza non rinunciassimo a quell’ossigeno del nostro esistere che è dato dall’aggregazione. Le persone devono stare insieme, devono guardarsi negli occhi, devono condividere parole ed emozioni. Dobbiamo restituire all’umanità la fiducia nel prossimo, non diffondere l’idea che l’altro da noi sia un pericolo e non un’opportunità. Considero sbagliato e pericoloso il negazionismo. Ma mi auguro che, per negare il negazionismo, non si mantenga ad libitum questo stato di permanente tensione e isolamento sociale».
Interpreti il padre del bambino con una recitazione “a levare”. Tanto difficile quanto efficace...
«L’immagine di quell’uomo rimanda a quella di altri come lui. È inutile che ti dica che non ho pensato a Volontè di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Un’intera generazione di uomini delle forze dell’ordine di quell’epoca trasmetteva in piccoli dettagli del proprio modo di vestire, camminare, muoversi, pettinarsi, portare il corpo, qualcosa di minaccioso. Buona parte di quei funzionari erano persone del Sud, venute su da famiglie molto povere. Attraverso il loro lavoro si erano costruiti una posizione, si erano garantiti lo stipendio mensile. Nati negli Anni Venti, come mio padre, erano educati con un’idea di rigore e di ordine che aveva a che fare con la loro vita, prima ancora che con il loro servizio alla nazione. In più erano uomini inarrivabili dai figli. Io mi ricordo i silenzi di mio padre, l’imbarazzo nel volergli parlare, il silenzio che regnava in casa in loro presenza. Vederlo ridere era una stranezza. La loro fragilità era nella difficoltà di uomini nati dando del lei ai propri genitori. Uomini per i quali qualsiasi gesto di affetto equivaleva ad una debolezza, uomini che non si potevano permettere di piangere davanti ai figli, non si potevano permettere di mostrare le proprie fragilità. Recitare questo personaggio “levando” era necessario, innanzitutto per non essere ingombrante nei confronti dei due protagonisti e poi per me era giusto che anche il pubblico sentisse un pochino di soggezione nei confronti di quest’uomo».
Dimmi la diversità che c’è tra imitazione e immedesimazione...
«Noi siamo schiavi del fatto che abbiamo bollato di serie A l’Actors Studio americano e di serie B tutta la tradizione italiana. La tradizione italiana è una tradizione di trasformazione. Io ho avuto come maestri Costa, Ronconi, che mi hanno sempre spinto ad imitare le persone, ad ascoltare, a guardare, a rifare. Metodo che si può attuare strizzando l’occhietto allo spettatore, oppure portando l’attore a pensare e a sentire come le persone che interpreta. Gli attori di cosa si occupano? Dei comportamenti altrui. Partire da quello che può essere un vezzo e andare a cercare il motore di quel vezzo significa scavare sull’origine della motivazione di comportamenti e atteggiamenti. Io, guardando le foto di Craxi degli Anni 60, vedevo che Craxi allora non aveva la tendenza a muovere il collo piegandolo. Allora, indagando, ho capito che lui portava le lenti progressive e le lenti progressive come sai mettono a fuoco solo al centro. Craxi ha poi usato questa condizione: quella posizione obliqua metteva l’interlocutore in una determinata condizione, a disagio. Capire l’origine dei caratteri e dei gesti. A me questo piace fare. A quel punto non è più l’imitazione di ciò che fa il personaggio. Inizi a capire dove sta il suo pensiero. E se inizi a capire dove sta il suo pensiero, per me stai facendo il tuo mestiere di attore».
C’è un regista del passato con cui ti sarebbe piaciuto lavorare?
«So a memoria tutti i film di Scola. Poi Pietrangeli, Elio Petri... Mi sarebbe tanto piaciuto incontrare Pasolini di cui ho una nostalgia insensata. Scola ho fatto in tempo a conoscerlo. Lavorare con lui mi sarebbe piaciuto».
Vi sareste trovati bene...
«Io sono un uomo popolare, cioè la mia è una cultura popolare, non sono un uomo particolarmente raffinato, non sono un intellettuale. Ma penso da sempre che si possa raccontare belle storie per un pubblico grande. Che qualità e quantità non siano nemiche. Ho sempre trovato che i film di Scola raccontassero l’Italia che io riconosco e che credo, ora, di saper raccontare».
Scola e quella generazione avevano proprio questa caratteristica, che li rendeva un pochino invisi alla critica, anche di sinistra: sostenevano che si poteva fare un prodotto di qualità culturale arrivando al massimo del pubblico possibile...
«È la ragione per cui ho fatto il Festival di Sanremo. Io voglio bene alle persone, non penso che siano più stupide di me. Mastroianni, Gassman, Totò andavano da Mina. E poi lavoravano con Fellini, Scola, Pasolini. Le persone, se io vado in una trasmissione televisiva, non vengono a vedere il film perché gli ho parlato del film, vengono al cinema se vogliono incontrarmi ancora, se hanno stabilito un rapporto con me. Bisogna sempre rispettare il pubblico, non ingannarlo, lavorare sodo. Per me è importante, l’abbiamo visto durante questo lockdown. Raccontare le storie è una cosa importante, fare compagnia alle persone non è una cosa da quattro soldi e tradire quella compagnia è una brutta cosa. Se mi chiedi che film vorrei fare ti rispondo: C’eravamo tanto amati o Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca). Ma sono orgoglioso anche di tanti soggetti che ho interpretato recentemente. C’è talento nel cinema italiano. Vedo crescere una generazione di attori giovani che mi sembra vadano sul set col frutto di un lavoro fatto prima. Questa spontaneità che oggi viene celebrata con leggerezza è finalmente sostituita dall’idea che il nostro sia un mestiere fatto di studio e di attenzione. Mi ha fatto impressione vedere in alcune serie televisive dei ragazzi che hanno fatto, lo si capisce, un percorso di studio per fingere di aderire a quel linguaggio della quotidianità. Il che dimostra che ci sono lavoro e fatica dietro. E questo mi fa ben sperare...».
Ultima cosa: «Qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto». È una frase del bellissimo monologo sull’immigrazione che recitasti al Festival di Sanremo. Qual è il luogo in cui stai bene, che consideri casa tua, in cui ti sdrai e saluti gli altri?
«Fortunatamente è casa mia, è la mia famiglia, è il mare, è quello che sto costruendo insieme ad Anna. Io finalmente ho smesso di cercare di apparire altro da me. Inizio ad assomigliarmi. E questa cosa mi fa stare sereno».