la Repubblica, 25 settembre 2020
Storia del rapporto tra Italia e Inghilterra
La superiore libertà degli inglesi, la più efficace serietà degli italiani: al di là della sparata del premier Johnson e della replica del presidente Mattarella, vista in prospettiva sembra una di quelle dispute cui è difficile venire a capo.
Forse dipende dal Covid e parecchio ha pure a che fare con la Brexit, due eventi comunque destinati a cambiare il reciproco immaginario. E magari non c’entra tanto, o appena quanto basta per ricordarlo oggi, fatto sta che nel settembre del 2003, quando ancora faceva il giornalista allo Spectator, l’allora 39enne Boris interruppe le sue vacanze e raggiunse villa La Certosa dove, insieme con il suo amico e connazionale Nicholas Farrell, intervistò a lungo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
E anche in questo caso, tra libertà e serietà, si perde la bussola, perché il Cavaliere si sbottonò dicendone di cotte di crude sui magistrati che erano dei pazzi, sui grandi giornalisti “gelosi” di lui, sulla guerra in Iraq che non lo convinceva e su Mussolini che in fondo non aveva ammazzato nessuno e anzi mandava i suoi oppositori a farsi un bel soggiorno sulle isole. Poi però, viste le reazioni, smentì tutto a suo modo, cioè in allegria, rivelando che durante l’incontro i due britannici avevano bevuto un sacco di champagne. Al che il futuro premier del Regno Unito reagì: «Niente champagne, purtroppo, solo tè freddo». E pubblicò una seconda puntata.
L’Economist, d’altra parte, settimanale di diverso orientamento, aveva da poco giudicato Berlusconi “unfit”, inadatto. Ma a dirla tutta, e con maggior forza dopo che il direttore di quell’illustre magazine ha in qualche modo rivalutato il Cavaliere, il sospetto è che per gli inglesi non esistano proprio, per principio e per definizione, presidenti italiani che risultino, a loro giudizio, adatti. Anche Prodi, per dire, non gli andava bene e per tutto il periodo in cui fu a capo della Commissione europea la stampa britannica lo trattò malissimo.
Ora, in questo campo è impossibile, oltre che ingiusto, generalizzare, ma pure gli italiani qualche pregiudiziale riserva contro gli inglesi ce l’hanno, o almeno gli viene fuori con una certa facilità – vedi la freddezza, se non peggio, mostrata nel momento in cui, era il 1982, la Marina di Sua Maestà andò a riconquistarsi le isole Falkland a scapito dell’Argentina, oltretutto a quei tempi guidata dai sanguinari generali golpisti.
Spropositato pare qui rammentare il contributo, non solo politico, della Gran Bretagna al Risorgimento, come del resto conviene tener fuori dall’odierno e lieve contenzioso la frase con cui durante l’ultima guerra mondiale il giornalista iperfascista Mario Appelius concludeva le sue perorazioni radiofoniche: “Dio stramaledica gli inglesi” (pure augurando loro “la mala notte").
Il punto, piuttosto, è che se nei rapporti fra popoli e nazioni la politica e la diplomazia possono mentire, l’interesse geopolitico e commerciale dice sempre la verità; e in questo senso fa riflettere un’annotazione di Churchill (si trova ne “Il Golpe Inglese” di Cereghino-Fasanella, Chiarelettere, 2011) che in un appunto del 1953 designa gli italiani quali “amici e avversari di infimo ordine!”, là dove nel paese dell’understatement, quel punto esclamativo suona di inaudito rinforzo.
Si trattava, guarda caso, di petrolio: l’Italia come una minaccia agli interessi energetici inglesi nel Mediterraneo e specialmente in Medio Oriente. Di qui, anche, un alternarsi di infastidita alterigia da una parte e indimenticabili soddisfazioni agonistiche dall’altra (il gol di Fabio Capello che ammutolì Wembley nel 1973); una storia intricata e spesso sotterranea che ha portato Londra a diffidare per mezzo secolo (con l’eccezione di Cossiga) dell’anticolonialismo di Enrico Mattei, poi del terzomondismo di Fanfani, quindi del filoarabismo di Moro e sempre del fervore papalino di Andreotti.
Ma ecco che tutto questo appare lontano e vicino, superato e attuale; come se invocare la presunta libertà degli inglesi e l’ipotetica serietà italiana servisse un po’ a convincersi, con qualche sforzo, dell’una e dell’altra.