Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 25 Venerdì calendario

Biografia di Giovanni Raicevich

L’atleta aitante, il campione, prestato al grande schermo, è una storia lunga un secolo, e in questo caso meriterebbe un remake cinematografico ai giorni nostri. Nel 1919, «l’uomo più forte del mondo» (172 centimetri di altezza per 110 chili di peso), il lottatore Giovanni Raicevich, debuttava ne Il leone mansueto – regia di Enrique Santos – e l’anno dopo, fu il protagonista del primo vero “biopic sportivo” italiano, Il re della forza: la pellicola che raccontava la vita e le imprese del più grande lottatore del mondo. Figlio di un marinaio dalmata, Raicevich era nato a Trieste ed era stato cresciuto allo «stato brado» nell’isola di Lagosta. Da lì, a cinque anni fece ritorno a Trieste, dove con i fratelli Massimo e Emilio divennero ben presto noti per la loro forza fisica e le grandi capacità di nuotatori. Nessuno reggeva il confronto con i tre fratelli, fiore all’occhiello della Ginnastica Triestina. E con i primi guadagni racimolati con gli incontri internazionali, anche piccoli impresari, titolari del “Circolo Raicevich”. Una fucina per tutti i ragazzi triestini che intendevano fare sport a contatto con tre campioni che lottavano e giravano per l’Europa con l’anima e il cuore patriottico degli italiani veri. “Giovannone” in particolare, saliva al settimo cielo ogni qualvolta riusciva a battere gli atleti austro- ungarici, simbolo ai suoi occhi dell’invasione della propria città. L’irredentismo, mai celato, e una scazzottata con semidistruzione dello storico Caffè Tommaseo – assieme ai suoi fratelli –, fu all’origine della fuga da Trieste. Fuga per la vittoria: a San Pietroburgo e poi in Sudamerica, con ritorno nel Vecchio Continente per salire sul tetto del mondo. Nel 1907, a Parigi, Giovanni Raicevich battendo in finale Laurent le Beaucairos conquistò la corona iridata di lotta libera. Una sfida spettacolare, «la più bella notte della mia vita», avrebbe ricordato anni dopo Raichevich che, sul ring del Folies Bergère, ricevette perfino il bacio della divina Carolina Otero, alias la “Bella Otero”. Meno gradito fu l’encomio dell’ambasciatore dell’Impero Austro-Ungarico che gli ricordò: «Raicevich lei è triestino, quindi orgoglio di tutta Vienna e del nostro Impero». Parole che il prode Giovanni cancellò in fretta. Si gettò ancora di più nella mischia portando nel mondo l’effigie dell’«Ercole buono» d’Italia. Non era il lottatore più possente dell’universo-lotta. Più grossi di lui ce n’erano eccome, dal campione francese Pons (saliva sul ring sempre con i suoi calzoni alla zuava) al gigantesco siberiano Kacheff che guardava tutti gli avversari dall’alto dei suoi 2 metri e 20 centimetri. Eppure, grazie alla sua destrezza, alla presa tenace e quel collo supertaurino di 51 centimetri che gli garantiva la vincente «difesa in ponte», anche nel 1909 Raicevich – al Teatro dal Verme di Milano – nella finale mondiale contro il temibile Pons ebbe la meglio. Un successo salutato in maniera trionfale dalla Gazzetta dello Sport che lo elesse «icona nazionale» e testimonial del Giro d’Italia di quell’anno. Giovannone l’italiano continuò a girare il mondo compiendo cinquanta viaggi transoceanici (un primato per il tempo) e vincendo tutti i tornei possibili. A Buenos Aires, nel 1913, stabilì il record di sollevamento pesi: per ben cinque volte alzò 153 chili. Padrone assoluto del suo destino, allo scoppio della Grande Guerra stracciò la cartolina militare recapitatagli dall’esercito austro-ungarico per schierarsi in prima linea con gli interventisti. Partì volontario con le truppe italiane e mentre sul fronte austriaco perse il fratello Massimo (morì nel ’15 fucilato a Salisburgo) Giovanni tornò vincitore, come sempre. A guerra finita, come detto, si distinse anche come attore, ma l’unica impresa che fallì clamorosamente fu quando decise di diventare anche produttore cinematografico. Perse tempo e soprattutto denaro, tanto. Tornò a lavorare nel suo mondo, quello della lotta, ma le luci della ribalta sfumarono, come la gloria e il conto in banca. Morì triste e solitario (il 1° novembre del 1957) e la Gazzetta dello Sport che un tempo lo aveva celebrato (con tanto di paginate) come lo sportivo più esemplare, quasi dimenticò di dedicargli il necrologio.