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 2020  settembre 24 Giovedì calendario

Intervista a Luca Ricolfi

Luca RicolfiIl problema del centrodestra, il problema vero, è che non riesce a formulare un’alternativa convincente alla deriva assistenziale del governo giallo-rosso. Su tasse, lavoro e pensioni Meloni e Salvini la pensano in modo diverso». Così Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati dell’Università di Torino, presidente della fondazione David Hume, che legge i risultati dell’ultima tornata amministrativa con ItaliaOggi. Passata la buriana elettorale, ora toccherà gestire i miliardi del Recovery fund: «Avremo un ulteriore aumento del debito pubblico». L’attesa ripresa economica? «Io temo che l’Italia sia già spacciata», dice Ricolfi, «salvo non facessimo come l’Irlanda. Ossia: rendiamo l’Italia un paradiso imprenditoriale».
Domanda. Perché al Sud il centrodestra non ha vinto?
Risposta. Il centrodestra, al Sud, governa 6 regioni su 8. Per sfondare al Sud è indispensabile fornire un qualche tipo di «garanzia assistenziale», ossia la ragionevole attesa dell’arrivo di trasferimenti e investimenti in infrastrutture. Questa garanzia il centro-destra, che per sua natura è un po’ meno assistenzialista del centro-sinistra, poteva darla solo controllando il governo nazionale. Il centrosinistra, invece, poteva dare una doppia garanzia, perché controlla il governo centrale, ed è ovviamente predisposto a foraggiare i «suoi» governatori.
D. La politica dei sussidi è stata l’arma vincente del Movimento5selle alle passate elezioni: è diventata una ricetta universale?
R. Direi che lo è sempre stata, e non solo al Sud. Le false pensioni di invalidità sono forse l’esempio storico più significativo di acquisto del consenso mediante misure assistenziali, un esempio che ha coinvolto tutto il Sud ma anche alcuni territori del Centronord, in particolare l’Umbria.
D. Emiliano-De Luca contro Zaia-Toti: l’Italia è sempre divisa in due?
R. La geografia del voto è politicamente muta, se non fuorviante, perché riflette soprattutto dinamiche locali. La vittoria di un governatore è sempre più un evento apolitico, legato alle capacità e all’immagine del singolo, più che alla forza dei partiti che lo sostengono.
L’Italia resta quella che è sempre stata negli ultimi 30 anni, con il Centro-Nord che tira la carretta e il Sud che recita la parte della vittima ed esige assistenza. L’unica differenza che vedo è che, con il Covid, il divario Nord-Sud potrebbe assottigliarsi, rendendo ancora meno credibili le pretese di risarcimento del Mezzogiorno.
D. Il divario potrebbe assottigliarsi a favore del Mezzogiorno?
R. Probabilmente ha già cominciato a farlo, perché produzione industriale ed esportazioni sono concentrate nel Centro-Nord. Ma ci sono anche altri aspetti: l’incauta estate che i nostri governanti hanno orchestrato per salvare il turismo ha beneficiato più le località marine del Sud che le grandi città del Centronord; la prospettiva di una seconda ondata in Pianura padana sta incentivando le iscrizioni nelle università del Sud e persino il trasferimento di forza lavoro. Il tutto riassunto nel neologismo: South working, una delle risposte più creative allo shock del Covid. Né si pensi che il fenomeno sia solo italiano: New York si sta svuotando, e gli americani stanno riscoprendo i vantaggi delle periferie, e delle realtà non metropolitane.
D. C’è un problema di leadership nel centrodestra? O di classe dirigente?
R. I problemi ci sono tutti e due, ma quello più grave è la mancanza di leadership, non la mancanza di classe dirigente. Se c’è leadership politico-culturale, se c’è un’idea coerente e ragionevole di futuro, la classe dirigente arriva quasi in automatico: è uno dei pochi vantaggi dell’attitudine trasformistica delle nostre élite. Il problema del centro-destra, il problema vero, è che non riesce a formulare un’alternativa convincente alla deriva assistenziale del governo giallo-rosso.
D. Perché non ci riesce?
R. Non ci riesce perché pretende di presentarsi unito, e di far credere che le differenze siano questione di fisiologiche «diverse sensibilità». Su molte cose (tasse, lavoro, forse pensioni) Giorgia Meloni non la pensa come Matteo Salvini, ma non se la sente di uscire allo scoperto. Il risultato è che, se devono immaginare un futuro governo di centro-destra, gli italiani non possono che figurarsi le solite cose: linea fintamente dura con gli immigrati (anche la destra non sa come rispedire al mittente mezzo milione di irregolari); condoni fiscali à gogo; conati di flat tax; un po’ di assistenza (quota 100) contro la cattiva Fornero; scintille con l’Europa; qualche dispetto alla Magistratura e alle «toghe rosse»; forse qualche cautela in meno sul Covid, per non ammazzare l’economia.
D. Zaia in Veneto stravince di suo: è la vittoria della Lega o di un governatore?
R. Di tutti e due. La vera Lega è quella veneta, quella lombarda è un’imitazione riuscita non benissimo. Però se devo assegnare a qualcuno il merito della stravittoria di Zaia, quel qualcuno è il virologo Andrea Crisanti, che ha pilotato la lotta al Covid e impedito il collasso della Regione. Ed è un po’ triste che, anziché esprimere gratitudine, Zaia si ostini a sminuire il ruolo del suo principale benefattore.
D. Zaia prossimo leader della Lega nazionale? O una Lega nazionale è tramontata?
R. Zaia mi sembra ben insediato nel «suo» Veneto, ma non si sa mai. Certamente uno come Zaia renderebbe la Lega più digeribile all’elettorato, e starebbe al governo più compostamente di Salvini. Però io temo che Zaia, come Mario Draghi, sia vittima dell’istinto di autoconservazione che scoraggia le persone intelligenti dal mettersi al comando di una nave in cui tutto l’equipaggio è pronto ad ammutinarsi e a buttare a mare il capitano. Quindi: non avremo né Zaia né Draghi al comando, il che è un bene per loro e un male per noi.
D. La politica assistenzialistica può essere coniugata con una politica di sviluppo?
R. No. L’assistenzialismo col turbo, come quello dei mesi scorsi, può persino essere necessario nell’emergenza (Keynes docet), ma poi bisogna limitarsi all’assistenzialismo sano, quello europeo: reddito minimo per chi davvero non ce la fa (e controlli sul lavoro in nero). Possibilmente senza le finzioni della ricollocazione, dei navigator, o le umilianti tribolazioni delle politiche attive.
D. Un’economia in cui c’è più mano pubblica funziona?
R.Nel mio ultimo studio sull’uscita delle economie avanzate dalla crisi del 2007-2011 (in uscita presso Mondadori) ho mostrato, dati alla mano, che i paesi che ce l’hanno fatta sono quelli che hanno ridotto l’interposizione pubblica, e che i paesi che hanno risposto alla crisi espandendo la sfera di influenza dello Stato sono invece rimasti impigliati in regimi di stagnazione. L’Italia fa purtroppo parte del secondo gruppo.
D. Ora abbiamo da gestire 209 miliardi di Recovery fund. Come si muoverà il governo Conte?
R. Penso che li distribuirà in modo relativamente equanime a tutti i territori (Regioni e Comuni), che del resto già stanno facendo la fila, con l’acquolina in bocca, per accedere alle «risorse». Sarà come una flebo che irrorerà gli organi vitali del paese, dando loro la sensazione di poter guarire dalla malattia che, non da ieri, hanno contratto. Il risultato probabile sarà un ulteriore aumento del debito pubblico, di cui ci accorgeremo – repentinamente e drammaticamente – solo quando i mercati si risveglieranno dal torpore che, complice la Bce, per ora li sta tenendo buoni.
D. Ma perché i mercati dovrebbero risvegliarsi?
R. Perché li teniamo d’occhio, come Fondazione Hume, e abbiamo fatto i calcoli. L’indice VS2, che misura quanto dovrebbe essere il rendimento dei titoli di Stato decennali se contassero solo i fondamentali economici e non intervenissero circostanze speciali (Covid e politica Bce, ad esempio), ci dice che attualmente l’Italia e gli altri paesi euro superindebitati godono di condizioni di speciale favore, inevitabilmente transitorie. Quando queste condizioni dovessero allentarsi o estinguersi, i rendimenti potrebbero raddoppiare, e nulla esclude che a quel punto possa scattare una nuova spirale di aumento, come quella del 2010-2011.
D. Torniamo al tema centrale, qual è la leva per accendere lo sviluppo?
D. Ho qualche resistenza a rispondere a questa domanda, per due motivi. Il primo è che, a mio parere, l’Italia è già spacciata, perché abbiamo perso troppo tempo; e lo abbiamo fatto con tutti i governi, sia prima, quando mendicavamo flessibilità senza fare le riforme strutturali, sia durante il Covid, quando abbiamo trascurato le imprese, e bloccato la loro ristrutturazione (un punto su cui Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha ragioni da vendere). Il secondo motivo è che, se le dicessi quel che andrebbe fatto, sarebbe immediatamente evidente che nessuno lo farà mai. Neppure un governo meno ostile al mercato e alle imprese di quanto lo sia il governo attuale.
D. Cosa andrebbe fatto?
R. Ci provo a dirlo con una formula: facciamo come l’Irlanda. Ossia: rendiamo l’Italia un «paradiso imprenditoriale». Il che vuol dire essenzialmente tre cose, che se fatte in questi mesi avrebbero evitato la chiusura di migliaia di attività e limitato la distruzione di posti di lavoro.
Primo: la Pubblica amministrazione paga tutti i suoi debiti entro 30 giorni.
Secondo: imposta societaria al 12.5%, come in Irlanda.
Terzo: drastico alleggerimento delle regole della vita economica, mediante regimi transitori e semplificati, sul modello del ponte Morandi.
D. Basterebbe?
R. Probabilmente no, ma limiterebbe i danni. Noi siamo destinati ad impoverirci, la domanda è solo: di quanto e in quanto tempo?