In Italia Kjartansson è di casa. Ha rappresentato l’Islanda alla Biennale di Venezia del 2009. In Laguna è tornato nel 2013 invitato da Massimiliano Gioni e ha portato la sua barca blu piena di ubriaconi che cantavano nel bacino delle Gaggiandre. La prima volta a Milano è stata nello stesso anno: all’Hangar Bicocca con Visitors , l’installazione video ambientata in una vecchia mansion trovata nella valle dell’Hudson River a nord di New York e riempita con i suoi amici musicisti. Lui con la chitarra cantava comodamente sdraiato nella vasca da bagno.
Kjartansson è tornato adesso a Milano con The Sky in a Room , la performance curata da Massimiliano Gioni con la Fondazione Trussardi nella Chiesa di San Carlo al Lazzaretto fino al 25 ottobre. Il titolo rimanda a Il cielo in una stanza di Gino Paoli, che ha ispirato il progetto con cantanti professionisti che si alternano per sei ore al giorno all’organo.
Come è nata la passione per questa canzone?
«Tornavamo da un viaggio a Bologna e un mio amico mi fece ascoltare Mina che cantava questa canzone: è stato un po’ come per San Paolo sulla via di Damasco… sono rimasto folgorato, anche se poi ho ascoltato la versione di Gino Paoli e confesso che mi piace di più».
Che cosa può significare per un islandese una canzone così italiana?
«Per me rappresenta il vero inno nazionale italiano. È una celebrazione dell’amore e, nel modo in cui parla dello spazio e dell’architettura, una sorta di versione musicale delle opere dell’artista americano James Turrell, dove interno ed esterno si confondono. Che poi è quello che accade quando siamo innamorati: non si capisce più se siamo dentro il nostro corpo o dentro il nostro spirito».
"Il cielo in una stanza" è forse la prima canzone di musica leggera italiana ad essere diventata un’opera d’arte contemporanea, forse l’unica ad essere entrata nella collezione di un museo.
«È vero! Il progetto mi è stato commissionato dal Museo Nazionale del Galles a Cardiff nel 2018, che poi l’ha acquistata. Lì credo che sia stata cantata e suonata per almeno tremila ore, su un organo del 1774».
Il Diciottesimo secolo con le sue forme artistiche è un’epoca che sembra piacerle molto.
«Sì, a quel tempo c’era un artista come Mozart che parlava della natura umana e delle sue emozioni con allegria e serenità e a me piace fare lo stesso. L’epoca rococò aveva come scopo la ricerca della felicità, una ricerca che fa parte della filosofia del mio lavoro, anche se spesso è causa di molta frustrazione».
"Il cielo in una stanza", pur essendo stata scritta nel 1960, sembra perfetta per questo periodo in cui spesso ci ritroviamo chiusi in casa a sognare che le pareti e i soffitti dei nostri appartamenti si trasformino in boschi e cielo.
«Sono felice infatti di portarla a Milano nella Chiesa di San Carlo al Lazzaretto. Un luogo che oggi ha una valenza simbolica: fu costruita in modo che durante le epidemie di peste del 1576 e del 1630 i malati potessero assistere alla messa. La chiesa è poi diventata famosa grazie a I promessi sposi, una grande storia d’amore».
Sembra ossessionato dall’amore.
«Sì, sono ossessionato dall’amore e dalla felicità, come lo era ?echov: nelle sue opere c’è tanta disperazione quanto amore. Ne sono ossessionato perché so quanto devo lottare per ottenerlo, quanto devo combattere contro la mia avidità interiore piena di desideri triviali».
Le piace di più dipingere o fare il performer?
«Sono un pittore, magari della domenica, ma sempre un pittore: tutto il mio lavoro contiene riferimenti alla pittura. Non sono né un cantante, né un musicista, anche se vorrei tanto esserlo».
Possiamo dire che lei è l’anti Marina Abramovi?? I materiali preferiti con cui lavora sono l’umorismo e la leggerezza, l’opposto di quanto fa lei.
«Marina Abramovic è una grande sacerdotessa dell’arte; io sono semplicemente uno chansonnier».
Il prossimo anno inaugurerà a Mosca "Ges2", il nuovo centro d’arte disegnato da Renzo Piano (amico di Gino Paoli peraltro) con un progetto molto ambizioso.
«Renzo mi ha detto che ha raccontato a Gino Paoli di questo strano artista che cantava la sua canzone...».
Che cosa gli ha risposto Paoli?
«Chi se ne frega... credo. Tornando a Mosca, la V-A-C Foundation mi ha invitato a riempire una vecchia centrale del gas a due passi dal Cremlino. Parlando con il team dei curatori mi è venuta questa idea di rigirare Santa Barbara, la soap opera americana che dopo il crollo dell’Unione Sovietica arrivò in Russia e diventò la prima finestra sull’America. Proveremo a rimettere in scena le 9 stagioni e i 2.137 episodi».