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 2020  settembre 23 Mercoledì calendario

1QQAN40 La vita agra di Garibaldi

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Sorprendente. È il primo aggettivo che viene in mente al termine della lettura di questo Garibaldi, ritratto dell’Eroe dei due mondi pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1972, giusto un anno dopo la scomparsa del non ancora cinquantenne Luciano Bianciardi. Sorprendente perché da uno come lui, anarchico, ribaldo, irriducibilmente mai riconciliato con una qualche astratta normalità del Bello Scrivere, al culmine di una vita urlata, di un’esistenza “contro”, ci si aspetterebbe la desacralizzazione del sacro, la demitizzazione del mito, l’abbattimento della statua, il disegno dei baffi alla Gioconda. In una parola: quel “parlar male di Garibaldi” che cent’anni di Italia postunitaria avevano eletto a tabù impronunciabile.
E invece Bianciardi ama Garibaldi di un amore intenso e rispettoso, a volte carico di un trasporto da tifoso accanito; lo ama senza mezzi termini e senza compromessi, al punto da restituirne, in pagine puntualissime sotto il profilo dell’accertamento storico e sorrette da una lingua agile, vivace e modernissima, la stessa, perfetta icona che generazioni di studenti, prima di lui, avevano imparato a conoscere – con sempre maggior disinteresse – sui sacri testi. Garibaldi a cavallo, eroe senza macchia e senza paura, coraggioso, tenace, schivo e, verrebbe da dire, eterno. Al punto che la solenne chiusa del libro – «Ancora oggi, per molta gente, il Garibaldi della leggenda torna più comodo del Garibaldi della realtà. Noi, modestamente, abbiamo cercato di farlo scendere dal piedistallo, di ritrovarlo uomo» – appare involontariamente distonica rispetto a quanto s’è appena letto: ma si può davvero chiedere a un eroe, per essere considerato tale, a un uomo per entrare nella leggenda, qualcosa di più e di diverso da quello che Bianciardi ci racconta del “suo” Garibaldi?
Per ritrovare il graffio del Bianciardi della Vita Agra o del Lavoro culturale, allora, bisogna addentrarsi in un percorso completamente diverso. Dare per postulato che l’alterità – per l’autore non certo un vezzo, quanto piuttosto una ragion d’essere – alberghi piuttosto in un “altrove” che si ripromette di fare giustizia di un’antiretorica che, a forza di aggredire il mito, s’è trasformata nella peggiore retorica.
(...) Si era nei primissimi anni Settanta, dopo tutto. Quanto a demitizzazione, il Sessantotto aveva da poco – almeno sotto questo profilo – cambiato il mondo. Del Risorgimento non sopravviveva che una sbiadita collezione di sfocati busti di gesso (e andrà ancora peggio per i centocinquant’anni del 2011, affrontati quasi con un incomprensibile senso di colpa collettivo). Si era già radicata, presso molti, l’idea che l’Unità non fosse poi stato un grande affare. L’Italia guardava altrove. Il passato veniva revisionato, come accade periodicamente. I miti, se non proprio vilipesi, congelati. Il Risorgimento? Abbiamo dato, grazie. Esattamente lo stesso moto di supponente sufficienza con il quale, più avanti, si liquiderà la Resistenza. Bianciardi, invece, viene da un lungo “feeling” con il Risorgimento. Garibaldi è la prosecuzione ideale di Da Quarto a Torinoe Antistoria del Risorgimento : narrazioni a tratti didascaliche nelle quali la figura di Garibaldi è centrale. E sempre luminosa. Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo. È, ancora una volta, un gesto “contro”.
(...) Che cosa, però, piaceva tanto a Bianciardi, del Risorgimento? D’impulso verrebbe da dire: lo slancio utopistico di cambiare le cose attraverso la rivoluzione, e quel gusto agrodolce, che da innamorato dei belli e perdenti il grossetano doveva adorare, che dà la consapevolezza del lavoro lasciato a metà: benedetta sia l’Unità, ma si doveva far meglio e di più. Noi siamo eredi di quella imperfezione, e non dobbiamo vergognarcene. Garibaldi è così la figura emblematica dell’intera, epica stagione. Quando descrive l’uomo di mare, nelle parole di Bianciardi senti la spuma del Tirreno; quando tratteggia con convinta passione i passaggi più audaci delle guerresche imprese, avverti l’entusiasmo del ragazzo agitato per il suo simile, la voglia di menare le mani perché senza una spallata, a volte, non si possono cambiare le cose. Viene da sé che l’affetto per Garibaldi non sarà mai disgiunto, in uno come Bianciardi, dalla diffidenza per Cavour. Spesso definito “il diabolico conte”. L’uomo delle trame, degli accordi sottobanco, del raziocinio e dei piccoli passi. Quello che trasforma in potenza di rango mondiale uno staterello insignificante. Alla fine – e questo nemmeno Bianciardi può negarlo – il “fine tessitore” sarà il vero artefice, il regista, il trionfatore, se è vero che il Piemonte si farà Italia, o, come dicono molti, l’Italia diventerà un’estensione del Piemonte. Ma se è vero che senza Cavour avremmo avuto tanti coraggiosi e sfortunati fratelli Bandiera, che ne sarebbe stato del progetto del diabolico conte senza l’utopia di Mazzini e la forza dirompente di Garibaldi? Be’, in quegli anni l’Italia calcolatrice, raziocinante, un po’ angusta ma aperta agli influssi dell’emergente borghesia europea, l’Italia di Cavour, e quella passionale, ardimentosa, progressista, ma rissosa e lacerata da tensioni e rivalità, l’Italia della sinistra mazziniana, raggiunsero un miracoloso, irripetibile accordo. Garibaldi incarnò la figura centrale di questo vasto movimento. L’Eroe. Se lo si vuole degustare per intero, allora, questo piccolo, prezioso scritto, bisogna abbandonarsi al fascino della figura storica, così come ha presumibilmente fatto lo stanco e disilluso Bianciardi dell’ultimo periodo. Rivivere un tempo che non tornerà mai più, appassionarsi a un eroe che, sì, avrà avuto, come chiunque, i suoi momenti d’ombra, ma che dobbiamo tenerci caro, come fece Bianciardi, e come si conviene a ogni eroe, per la maggior forza della luce che ha saputo spandere, con il suo esempio e le sue azioni. Perché se i miti e gli eroi hanno un senso, ha scritto una volta Joseph Campbell, è quello di aiutarci a vivere meglio. E il tempo nel quale l’esercizio preferito è quello di annientare i primi e disarcionare i secondi è un tempo grigio, triste. Banale e retorico. Due aggettivi che Bianciardi odiava profondamente.