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 2020  settembre 23 Mercoledì calendario

Torna al cinema The Elephant Man

Sono passarti quarant’anni dalla prima proiezione di The Elephant Man di David Lynch, ma il film non ha perso un briciolo della sua forza (e della sua bellezza) e rivederlo oggi, nel perfetto restauro in 4K proposto dalla Cineteca di Bologna (in originale con i sottotitoli) continua a essere un’esperienza sconvolgente, una delle sempre più rare volte in cui il cinema trova appieno la sua capacità di emozionare e di insegnare. Di ricordarci come un film può toccare il cuore e insieme mettere in azione la mente.
Merito della storia, quella drammatica di John Merrick (nel film interpretato da John Hurt che ogni giorno si sottoponeva a otto ore di trucco), affetto dalla rarissima Sindrome di Proteo, che causa una crescita incontrollata delle ossa e della pelle così da deformare l’aspetto delle persone; merito della sceneggiatura (di Christopher De Vore, Eric Bergren e del regista) che accompagna lo spettatore dentro un dramma dove il protagonista cerca di sopportare un destino così dolorosamente umiliante; merito della fotografia di Freddie Francis che in un magnetico e raffinatissimo bianco e nero «trasforma la sporcizia e lo squallore della Londra ottocentesca in un luogo di compassione e miracoli» (le parole sono quelle del critico Tom Huddleston); merito di Mel Brooks che, comico celeberrimo e regista di successo (il suo Frankenstein junior è di sei anni prima, 1974) decide di produrre con la sua neonata compagnia un film così lontano da quelli che lo avevano reso ricco e famoso, convincendo la Paramount a finanziarlo; ma soprattutto merito della regia di David Lynch che ha saputo far emergere l’umanità in un personaggio che sembrava destinato a non averne e che ha ribaltato le regole del genere, trasformando un horror nella (commovente) riflessione sull’idea stessa di paura e su come può diventare qualcosa di ambiguamente affascinante.
Attrazione da fiera nella Londra vittoriana, trattato peggio di un animale («è un aborto di natura») dal sadico Mr. Bytes (Freddie Jones), l’«uomo elefante» – soprannominato così perché la madre incinta era stata travolta da un pachiderma, che la credenza popolare considerava causa delle sue deformazioni – attira l’attenzione del chirurgo Frederick Treves (John Hopkins) che riesce a farlo ricoverare al Royal London Hospital con l’appoggio del primario Carr Gomm (John Gielgud), entrambi colpiti dalla sensibilità e dalla cultura che Merrick aveva sorprendentemente dimostrato.
La sua mostruosità unita alla sua bontà d’animo e gentilezza lo trasformano in una specie di beniamino della buona società londinese che inizia a fargli visita in ospedale, tanto da spingere la Principessa di Galles (Helen Ryan) a finanziare il suo mantenimento permanente all’interno dell’ospedale. Ma il destino sembra volersi accanire ancora, perché Mr. Bytes non si è rassegnato a perdere la sua fonte di guadagni.
Così, dopo averci fatto conoscere un «mostro» che invece di scatenare il nostro terrore ne è lui stesso preda, impaurito da quello che le persone potrebbero fare di fronte alle sue deformazioni, Lynch, che in questo modo ha raccontato la paura che ha Merrick di far paura, sposta l’equilibrio del film sul nostro sguardo, sul voyeurismo che spinge le persone a guardare qualcosa da cui dovrebbero normalmente allontanare gli occhi: prima lo sguardo vampiresco della comunità medica che si nasconde dietro una giustificazione scientifica, poi quello pietoso e commiserevole ma anche irrimediabilmente classista della buona società inglese e infine quello crudele e sadico del popolo che non smette di considerare Merrick un’attrazione da fiera.
In questo modo Lynch mette letteralmente in scena il meccanismo della visione (e in fondo del cinema) dove quello che vediamo piuttosto che svelarci un qualcosa che potrebbe essere nascosto in noi stessi (da cui il fascino di molti horror, a cominciare dal capostipite Freaks) diventa invece lo specchio dentro cui si riflette la nostra anima. Affidando alle scene finali, pervase di una struggente pietas, il compito di fare ancora una volta i conti con il senso del nostro sguardo.