Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  settembre 20 Domenica calendario

Intervista a Pietro Folena - su "Servirsi del popolo. Origini, sviluppo, caratteri del nuovo populismo italiano" (La nave di Teseo)

"La mia storia politica finisce con una sconfitta personale e collettiva. A un certo punto ho dovuto constatare che non avevamo più ascolto nella società. Gli strumenti con cui portavamo avanti le nostre istanze non funzionavano più".
 
Pietro Folena, uno "dei ragazzi di Berlinguer", ha ormai 63 anni. Un predestinato. Segretario della Federazione giovanile comunista (Fgci), deputato del Pci a trent’anni, inviato da Achille Occhetto in Sicilia a guidare il partito negli anni tumultuosi della primavera di Leoluca Orlando. Un uomo avviato alla più luminosa delle carriere nella sinistra italiana, poi la sinistra si è sfarinata e a 50 anni anche Folena è uscito di scena. Ora ha scritto un libro con cui fa i conti con la fine di questa vicenda, esaminando le origini e i caratteri del populismo nostrano: Servirsi del popolo, (La Nave di Teseo) sarà in libreria il 24 settembre.
 
Folena,  perché i populisti si sono sostituiti alla sinistra nel parlare agli ultimi?
"E’ accaduto che una volta caduti gli intollerabili sistemi comunisti le socialdemocrazie si sono adattate al pensiero unico del liberismo. La sinistra ha progressivamente dimenticato la questione sociale, ignorando la vita reale delle persone".
 
E cos’è oggi la sinistra?
"Una forza che essenzialmente pensa a se stessa soltanto come forza di governo, ma il governo è un mezzo non un fine".
 
E chi si sforza di parlare ancora la lingua degli strati subalterni?
"Papa Francesco. E’ più radicale di tanti a sinistra".
 
Lei mette in fila sei populismi italiani sorti sulle ceneri della Repubblica dei partiti.
"Il primo populista fu Umberto Bossi. Un uomo che in canottiera esaltava le piccole patrie, li metteva in contrapposizione con Roma, insultava i neri e i meridionali. Non è vero che Salvini non sia figlio di Bossi. Semplicemente non denigra più i meridionali".
 
Poi arrivò Berlusconi.
"Il suo è un populismo televisivo, la videocrazia. Il ricchissimo imprenditore che si contrappone alle élite politiche. Berlusconi non ha mediazioni. Si rivolge sin dal primo momento, con il discorso agli italiani, al popolo".
 
Perché la sinistra lo sottovalutò?
"Perché eravamo convinti che dopo la rivoluzione dei giudici, Mani Pulite, la gente ci avrebbe automaticamente votati. Non capimmo che il crollo dei grandi partiti - la fine del comunismo, della Dc e del Psi - era figlio di una grande rabbia che riguardava anche noi.  Avremmo dovuto leggere meglio i rapporti di Giuseppe De Rita per il Censis: e avremmo scoperto che c’era nel Paese una grande solitudine sociale.  Non lo capimmo, Berlusconi sì. Infatti fummo asfaltati".
 
Il terzo populismo è quello Di Pietro.
"Di Pietro è una reazione al berlusconismo. Di Pietro parlava un italiano elementare come Bossi. E’ l’antesignano del Vaffa-Day di Grillo".
 
Ecco Beppe Grillo.
"Con Grillo lo schema è già cambiato. Non è più uno scontro tra Capitale e lavoro, tra ricchi e poveri, ma tra alto e basso. Grillo dà voce a un pezzo grande di società che si sente esclusa, non più capita dai partiti, anche da quelli della sinistra, divenuti sempre più elitari. I cittadini trovano ostruite le forme di partecipazione e Grillo gli fornisce l’illusione della democrazia diretta".
 
Grillo è il primo che capisce che la politica si farà in rete?
"Sì, perché quello è lo strumento del suo tempo, come vent’anni prima le tv erano state le armi di Berlusconi".
 
Anche Renzi è un populista?
"Per me sì, anche se so che la cosa è più controversa. Mi sono riletto la Carta di Firenze della prima Leopolda, nel 2010. E’ piena di slogan da outlet. "Metà parlamento a metà prezzo", diceva, per sostenere il taglio dei parlamentari".
 
Lei come ha votato al referendum?
"No".
 
Salvini e Meloni invece come si spiegano?
"Rappresentano un populismo nazionalista. Figlio di una diffidenza verso gli altri, il nero, l’islam. Dopodiché la Lega vive una contraddizione: da un lato c’è la retorica neo nazionalista di Salvini, ma dall’altro la Lega al Nord è anche un partito popolare che governa spesso bene i territori più ricchi del Paese”.
 
Lei legge il populismo come un fenomeno della transizione. Con quale approdo?
"Sì, sono ideologie deboli che possono trasformarsi in ideologie forti, sfociare in una deriva nazionalista, come insegna l’Ungheria".
 
Il populismo è figlio della nostra crisi permanente?
"Certamente. E questo rende il populismo italiano diverso da tutti gli altri, perché i suoi caratteri hanno radici più lontane. La nostra storia unitaria tanto recente, lo scarso senso civico, l’anarchismo di fondo nel nostro carattere, rappresentano il terreno su cui si sono innestati i sei populismi".
 
I partiti di massa avevano tenuto a freno certe istinti anarchici?
"La Repubblica dei partiti aveva dei limiti, ma svolse un’educazione dei sentimenti. I partiti furono agenzie di formazione. Le sezioni del Pci, erano in tanti paesi, l’unico luogo dove c’erano dei libri. E non a caso molti segretari facevano i maestri: bisognava insegnare".
 
Rimpiange la politica?
"No. Ho fatto anche degli errori e li ho pagati. A 50 anni c’è stata una svolta nella mia vita. Mi sono innamorato di mia moglie, Andrea Catizone, avvocato impegnata per i diritti delle donne e dei minori, una passione che mi ha coinvolto moltissimo.  E non sono più stato eletto in Parlamento. Ho capito che all’improvviso ero dentro una nuova fase della mia vita".
 
E cosa ha fatto?
"Ho costituito un’associazione culturale, Metamorfosi, che realizza mostre, soprattutto sul Rinascimento. Il 20 ottobre a Genova se ne aprirà una molto importante di Michelangelo".
 
Che famiglia era la sua?
 "Colta e borghese. Papà Gianfranco, di cui ricorre il centenario della nascita, era linguista, uno dei più grandi umanisti italiani del Novecento. Mamma Lizbeth era una pittrice francese. Scelsi il Pci anche per reazione. Divenne la mia seconda famiglia. Era una grande comunità da cui ho avuto tanto".
 
Lei vide morire Berlinguer.
"Avevo organizzato il suo comizio a Padova e me lo ritrovai davanti in barella mentre entrava in neurochirurgia, il rantolo del coma l’ho sentito tante volte dentro di me in questi anni. Sono cose che non si dimenticano".
 
Chi c’era nella sua Fgci?
"Vendola, che io nominai dirigente, il primo dirigente gay dichiarato a sinistra. E c’erano, tra gli altri, anche Cuperlo e Zingaretti".
 
Zingaretti la convince come segretario?
"Sono abbastanza deluso. Mi aspettavo una rivoluzione della partecipazione che del resto aveva annunciato. Invece non è cambiato nulla. Gestisce il rapporto con l’M5S, che ha portato al Recovery Fund, ma il partito è composto da un apparato di eletti e di correnti che ha ben poche capacità di attrazione nella società".
 
Lei scrive che Occhetto è il capro espiatorio della sinistra.
"Ha fatto degli errori, come tutti. Il principale fu quello di non avere allargato la coalizione che affrontò Berlusconi nel 1994. Lì è mancata la visione di cosa si stava muovendo nel Paese, ma è stato troppo facile scaricare tutte le colpe sulle sue spalle. Tante volte la politica è molto ingenerosa con i suoi protagonisti quando cadono in disgrazia".
 
Lei era un suo delfino. L’ha più sentito?
"No".