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 2020  settembre 22 Martedì calendario

Simulazione: alla Camera meno seggi per tutti tranne FdI

Ha vinto il sì. E la sola cosa certa oggi è che il parlamento di domani avrà meno deputati e meno senatori. Sarà più simile a quello di tante altre democrazie. I partiti avranno meno seggi da distribuire. Per il resto cambierà poco. Lo abbiamo detto tante volte insieme a tanti altri la vera riforma da fare è la differenziazione delle due Camere. Forse, con un Senato più snello, si potrà fare meglio, ma è tutto da vedere. Non è detto che la spinta a cambiare il nostro assetto istituzionale venga rafforzata dall’esito di questo referendum. Se Pd e M5s insistessero sulla riforma elettorale che hanno messo in cantiere sarebbe vero il contrario. Come abbiamo scritto più volte, quella riforma, falsamente etichettata Germanicum, rappresenta un ritorno al passato. Sarebbe paradossale che questa fosse la sola conseguenza concreta della vittoria del sì. Tanto più che la riforma appena approvata, pur tra mille ambiguità nelle ultime ore, conferma che la strategia corretta per cambiare le nostre istituzioni, ivi compreso il sistema di voto, è quella della condivisione delle scelte e non quella dell’uso partigiano di una occasionale maggioranza parlamentare contro una minoranza, che tra l’altro oggi è quasi certamente maggioranza nel Paese. Ma su questo avremo modo di tornare. Intanto possiamo chiederci quale sarebbe la composizione della Camera nel caso in cui si votasse a breve con il sistema elettorale che Pd e M5s vorrebbero introdurre. Per procedere abbiamo preso la media dei sondaggi pubblicata da YouTrend prima del blackout. Il primo scenario si limita ad applicare il sistema di voto ai dati così come risultano dalla media YouTrend.
Solo Lega (25,2%), Pd (20,2), M5s (15,8), Fdi (15) e Fi (7,1) supererebbero la soglia del 5% attualmente prevista. Quindi sarebbero i soli a entrare alla Camera. Il primo scenario della tabella in pagina fa vedere la distribuzione dei seggi. Il centrodestra (Lega-Fdi-Fi) potrebbe contare su una maggioranza di 227 seggi su 400. Da soli Salvini e Meloni ne avrebbero 193. Questa distribuzione è il risultato del 16,7% di voto disperso, cioè voto attribuito alle liste sotto la soglia del 5%. In pratica il voto disperso produrrebbe una disproporzionalità tale per cui Salvini e Meloni con il 40,2% dei voti avrebbero il 48,2% dei seggi. Ed è sempre questo effetto disproporzionale a trasformare il 47,3% dei voti del centrodestra nel 56,8% dei seggi. Quindi il voto disperso è una variabile cruciale per capire come potrebbe funzionare il sistema elettorale in discussione.
Lo scenario 2 invece ipotizza un accordo tra Calenda, Renzi e Bonino. L’ipotesi è che correndo insieme mantengano tutti i voti che gli vengono attribuiti come partiti singoli. In questo caso il voto disperso scende all’8,7% e il centrodestra avrebbe 207 seggi invece dei 227 della simulazione precedente. Lo scenario 3 fa vedere invece cosa succederebbe nel caso in cui, oltre all’accordo tra i partiti di centro, ci fosse anche un accordo tra la Sinistra e i Verdi che presentandosi insieme supererebbero il 5%. In questo caso la quota di voto disperso scenderebbe al 3,6% e il centrodestra perderebbe la maggioranza assoluta dei seggi. In sintesi, la governabilità del paese, indifferentemente tra chi prevarrà tra centrodestra e centrosinistra, sarebbe appesa al voto disperso, e quindi agli eventuali accordi pre-elettorali tra i partiti minori allo scopo di evitare la soglia. Ma certamente la riforma non passerà – se passerà – con una soglia del 5%. Quindi la disproporzionalità necessaria per assicurare una maggioranza di governo stabile sarebbe ancora più aleatoria.
Concludiamo con alcune considerazioni sulla geografia del voto referendario con l’aiuto della tabella in pagina. L’affluenza complessivamente ha sfiorato il 54%. Una percentuale più bassa di quella del referendum del 2016, quello di Renzi, che fu quasi 15 punti più alta. Ma esattamente la stessa del referendum costituzionale di Berlusconi nel 2006. Come al solito, si è votato meno al Sud il 49,3% mentre nelle regioni del Nord l’affluenza è stata del 56,3% e nella ex zona rossa il 60,2%. Però nelle due regioni del Sud dove si votava anche per l’elezione di presidenti e consigli, Campania e Puglia, la percentuale dei votanti è stata rispettivamente del 61% e del 61,9%. Quindi, in generale si può dire che l’effetto del voto regionale sull’affluenza è stato sensibile. Come si vede nella tabella in pagina, nelle tredici regioni dove si è votato solo per il referendum l’affluenza è stata del 48,2% mentre nelle sette regioni in cui il voto referendario ha coinciso con quello regionale è stata del 63,8%. La cosa inaspettata è che questa differenza nel tasso di affluenza tra i due gruppi di regioni non si è tradotta in significative differenze nel risultato. Infatti, il sì ha vinto a livello nazionale con il 69,6 %; nelle sette regioni ha raccolto il 69,8%, mentre nelle rimanenti tredici il 69,4%.
Il risultato di questo referendum si presta a diverse interpretazioni. I Cinque Stelle possono rivendicare il merito di avere intercettato un tema gradito dall’elettorato. In fondo sono stati i soli a fare campagna elettorale a favore della riforma senza dividersi. Quasi tutti gli altri partiti, compresi quelli che l’hanno votata quattro volte in Parlamento, hanno assunto posizioni ambigue o diversificate. D’altro canto gli oppositori della riforma possono rallegrarsi sulla relativa forza del no. Qualche mese fa pochi immaginavano che il 30% degli elettori avrebbero votato così. Non c’è dubbio che negli ultimi tempi il vento sia cambiato. Osiamo dire che siano stati i sondaggi Cise-Winpoll pubblicati su questo giornale nel mese di Agosto a segnalare per primi il fenomeno. Qualcuno ha perfino dubitato che il sì potesse vincere. Ma alla fine la maggioranza a favore della riforma è stata schiacciante e trasversale. In nessuna regione il sì ha preso meno del 59,6% dei voti. E questo è un fatto.