Corriere della Sera, 22 settembre 2020
Tra i mille tifosi di Milan-Bologna
Il coro che si alza solitario, vagamente da osteria. Comunque un genere. L’applauso come fosse la Scala. Le urla di Gigio Donnarumma più alte di quello che avrebbe potuto fare un capo curva qualunque. A livello di volumi però, il clima è più da chiesa che da stadio. Se San Siro faceva effetto a porte chiuse, lo fa comunque adesso, che una squadra milanese debutta in campionato senza cori, striscioni e con le tribune lunari. Per quella che da sempre era la partita dopo l’estate, quella che dalle chiacchiere del mercato si passava ai fatti del campo. Un Milan-Bologna come non ce ne sono mai stati. A San Siro, come fosse un campetto di dilettanti.
Per la spedizione dei mille, i primi e unici ad essere autorizzati (quindi convocati) dalla delibera regionale, poi resa nazionale dal governo, sono stati i medici di ospedali milanesi e lombardi. Un tributo, un omaggio a quel periodo storico in cui il calcio era fermo, perché tutto il mondo era chiuso in casa a tifare, o meglio, a pregare, per loro. Giusto così, era successo anche se in forma (ancora) più ridotta al Gran Premio di Monza qualche settimana fa.
Uno stadio formato famiglia. Lo si dice spesso, come orizzonte più sano di un calcio più a misura d’uomo. Ieri lo è stato per davvero, dato che la società, oltre al personale sanitario, ha deciso di fare numero, per quel che si poteva, con i parenti dei giocatori, qualche volto noto dei Milan Club, ospiti dei partner e istituzionali. Con gli ex calciatori, come per esempio il «Concorde» Serginho, in coda ai banchetti sanificati per compilare l’autocertificazione last minute. Nelle prossime settimane, si proverà a ragionare su come aprire i botteghini, cercando di non scatenare una guerra al biglietto.
Pochi, ma buoni. E tutto sommato privilegiati, come raccontano i pochissimi bambini ai cancelli con la luce negli occhi. Per essere una «prima», fa effetto vedere il piazzalone dello stadio praticamente deserto fino a pochi minuti dal fischio d’inizio, senza manco un vigile a dare un occhio alla movida di tifosi. Senza il fumo di salamelle bruciate dei chioschi, senza gli stand del merchandising vero o finto che sia. Senza il fiume di tifosi, in auto, in motorino, a piedi. Senza neanche una lattina di birra accartocciata per terra. Sembra di essere al bar, ma con uno stadio da 80 mila posti intorno come fosse una cartolina statica. Più mascherine che sciarpe, distanziamento come religione invece delle solite ammucchiate pagane ai gol.
Dentro la gente si siede al primo rosso con tanto di bollini segnaposto. Gli ingressi da tre varchi distinti: pistola della febbre, pure il saturimetro, dato che le società hanno giurato di mettere in campo di tutto e di più per dimostrare che dai mille garibaldini di inizio stagione si può tranquillamente giocare al rialzo. Si arriva allo stadio con pacchetti di fogli di autocertificazioni, che sembra di entrare in un ospedale più che nel tempio del calcio. Eppure nonostante il contesto da clausura, il giochino non varrebbe la candela per gran parte dei tecnici. È un azzardo che non piace al direttore delle malattie infettive del Sacco Massimo Galli che poco prima del fischio d’inizio ha sventolato il cartellino rosso, bollando la riapertura degli stadi come «un atto simbolico che rischia di far passare un messaggio pericoloso».