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 2020  settembre 22 Martedì calendario

Che cosa cambia con la vittoria del Sì?

 Quasi venti mesi dopo il primo sì in Aula, il 7 febbraio dello scorso anno, la riforma entra in vigore. Ma per vedere gli emicicli di Camera e Senato vuoti per un terzo bisognerà attendere. Questa legislatura non sarà toccata dal taglio: non ci sono deputati e senatori pronti a fare le valigie (già bocciando il Porcellum, nel 2014, la Corte costituzionale citò come prevalente «il principio fondamentale della continuità dello Stato», la legittimità dell’Aula non è in discussione), occuperanno il proprio scranno fino allo scioglimento delle Camere. Alle prossime elezioni, però, saranno in palio 400 seggi per la Camera e 200 per il Senato. Allora sì, dopo il voto, si vedrà il nuovo Parlamento.


Altri 60 giorni di attesa
C’è un altro tassello da considerare. Nell’ipotesi (irreale) che si andasse a votare oggi, il taglio non sarebbe comunque operativo. La norma dà 60 giorni di tempo al governo per ridisegnare i collegi. Un passaggio tecnico necessario. Ma dopo questo termine sarà operativa a tutti gli effetti: le norme di cui si discute, dalle riforme «compensative» alla legge elettorale, non sono in alcun modo vincolanti. Si potrebbe già votare col Rosatellum oggi in vigore.


La legge elettorale
La legge elettorale, però, è il primo tema alla voce «cose da fare dopo il Sì». Sull’urgenza l’accordo è unanime, ma finisce quando si entra nel merito: quale sistema? Il 10 settembre il Germanicum (proporzionale con sbarramento al 5%) ha avuto il via libera in commissione alla Camera. Ma a votarlo sono stati solo Pd e 5 Stelle: Leu e renziani si sono sfilati, mentre nel centrodestra preferiscono il maggioritario. La strada del Germanicum sembra lunga e tortuosa. Ma per il Pd il proporzionale appare comunque irrinunciabile: è una delle precondizioni (poi diventate post-condizioni) chieste per il Sì alla riforma. Perché? Per mitigare l’effetto «sbarramento» della riduzione del numero di parlamentari, soprattutto al Senato, che è eletto su base regionale. È un aspetto tecnico: prima il numero minimo di senatori eletti per regione era 7, adesso è 3. Dove i posti in palio sono pochi (si veda il grafico in pagina), restano fuori partiti con percentuali anche a due cifre. Effetto che può essere compensato da una legge proporzionale.


Riforme compensative
Sempre per allargare la rappresentanza, è in cantiere una riforma costituzionale: per far sì che il Senato non sia più eletto «su base regionale», come previsto oggi. È questa una delle tre riforme costituzionali «compensative» in discussione. Un’altra riguarda la riduzione del numero dei delegati regionali che si aggiungono a deputati e senatori quando si elegge il capo dello Stato (sono 58 e con 600 parlamentari acquistano un altro peso). La terza vuole abbassare a 18 anni l’età minima per votare per il Senato (in attesa del terzo sì alla Camera). Si dovranno adeguare, infine, i regolamenti parlamentari.


I senatori a vita
A cambiare è anche l’articolo 59 della Carta, sui senatori a vita. Quelli nominati dal presidente della Repubblica per alti meriti — si sancisce con la vittoria del Sì — non possono essere più di cinque. Numero massimo, che interviene a chiarire un nodo che, in passato, ha visto scontrarsi due interpretazioni. La prima, per cui in Aula, in tutto, non potessero esserci più di 5 senatori nominati dal Colle. E un’altra, secondo la quale ciascun presidente aveva il diritto di nominarne 5. È stata intesa così ai tempi di Pertini e Cossiga (finito il suo mandato si contavano 11 senatori a vita). Resta invariato il laticlavio a vita, di diritto, per gli ex presidenti.