il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2020
1QQAFA13 Mussolini era presbite e soffriva di ulcera
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“La politica è la sola religione di questo secolo Ventesimo” si legge più o meno a metà delle 600 pagine di M. L’uomo della provvidenza (in libreria da mercoledì per Bompiani), secondo volume della trilogia che lo scrittore napoletano Antonio Scurati consacra a Mussolini. In effetti la parabola temporale qui contemplata – dal 1925 al 1932 – restituisce ancora una volta il primato novecentesco delle ideologie e dei partiti: dai passaggi che portano il Duce a instaurare la sua dittatura personale al “pantano di intrighi, gelosie e rancori del sottobosco politico romano”. Ma come anche nel primo fortunato M. Il figlio del secolo (Premio Strega 2019, mezzo milione di copie vendute, record di traduzioni, serie tv in lavorazione) l’affresco del potere coglie i protagonisti nella loro dimensione privata e ne svela con impietoso scandaglio vizi e debolezze (non solo nel romanzo ma nell’ecosistema stesso del fascismo, vedi la parabola di Augusto Turati all’insegna del sesso come nemesi del potere: nominato a sorpresa da Mussolini segretario del Partito fascista al posto di Farinacci, dopo anni di rigore “moderato” finisce nella polvere con uno scandalo sessuale montato ad arte).
Ecco allora che non c’è racconto pubblico del regime fascista, sia pure al netto della sua ferocia totalitaria, che non susciti nella sensibilità del lettore uno scherno perverso. Scurati descrive un Mussolini che “studia ogni giorno il tedesco come uno scolaretto, si vergogna degli occhiali da presbite e si diletta ad ascoltare Chopin, eseguito esclusivamente per lui da un pianista di grido, annusando un garofano rosso”, un Galeazzo Ciano “con qualche fallimento alle spalle, qualche ambizione artistica frustrata, che aveva imparato ad annoiarsi con charme posando in tragiche imitazioni di Rodolfo Valentino”, un Rodolfo Graziani con “la mascella quadrata, una capigliatura foltissima a stento dominata dalla brillantina, la pelle cotta dal sole, la grinta da duro dei film di gangster americani”, un Roberto Farinacci che è “il popolano appena digrossato che capisce solo le questioni di forza, è il trionfo della provincia sulla città, del cazzottatore di strada sul pugile olimpionico, del coraggio della rissa su quello del soldato”. La politica fascista – quella della soppressione di ogni libertà prima garantita dallo Stato liberale, della repressione sistematica di ogni dissidenza, dell’ambizione di rieducare un popolo – si innerva su una mediocrità umana così tratteggiata. Del resto, c’è un episodio rievocato in questo “romanzo documentario” da Scurati che fa coincidere l’era del terrore con lo sberleffo. La seduta che inaugura il Tribunale speciale per la difesa dello Stato porta alla sbarra un muratore, che informato del fallito attentato a Mussolini, pare abbia esclamato: Li mortacci sua. Che dire poi dell’ottusa aberrazione di condannare alla pena capitale un uomo per il solo reato di avere pensato di commettere un reato. È il caso di Michele Schirru, un anarchico condannato a morte in virtù della riposta intenzione di attentare alla vita del Duce: “Per infilare il cadavere di Schirru nella bara, troppo corta, i becchini devono piegargli le ginocchia. Per riuscire a inchiodare il coperchio, due militi sono costretti a sedersi sopra l’asse di faggio grezzo”. Lungi da noi una fuga dalla Storia e dai suoi eventi tragici – tra tutti dolenti i capitoli dedicati alle mire coloniali in Libia (“L’impero. Una modestissima collezione di deserti”) con Badoglio e Graziani che si rendono protagonisti di una vera e propria deportazione di massa con campi di concentramento e uso dei gas contro i ribelli locali – ma se l’operazione divulgativa di Scurati ha un merito è proprio quello, attraverso uno statuto letterario sia pure ambiguo perché privo di invenzioni, di sottrarre Mussolini e i suoi gerarchi dalla solennità storiografica e di ricollocarli nell’immaginario all’altezza o bassezza delle loro miserie. Come non ripercorrere il disegno totalitario del Duce e la sua insofferenza per il confronto democratico nel momento in cui apprendiamo soffrisse di ulcera duodenale e il suo ufficio di capo di governo puzzava spesso di “vomito sanguinolento”. È un racconto della Storia forse non inedito ma che mescola caratteri umani, ambizioni politiche, ragioni di Stato, in frasi icastiche e liberatorie come “Mentre Benito Mussolini a Cavallasca cavava sangue, letteralmente cavava sangue, a Roma Roberto Farinacci cercava di fotterlo”.