il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2020
Qualche numero sulle baby gang
“Non vogliamo che ci venga detto cosa fare. Non abbiamo padroni. La nostra unica famiglia è la gang”. L’odore di marijuana è addensato in ogni stanza, in sottofondo una traccia di musica trap squarcia il silenzio che aleggia in uno dei quartiere “borghesi” di una città toscana. Un gruppo di cinque ragazzi dai 16 ai 20 anni siede intorno a un tavolo, fumano spinelli e scorrono la home dei vari social, altri quattro sono incollati al videogioco Grand Theft Auto (Gta) e altri due maneggiano quella che sembra una busta di cocaina. Si definiscono una gang, anzi “una baby gang”.
Vestiti alla moda, tatuaggi in bella vista e ostentate collane d’oro da rapper è il loro outfit, bombolette spray e coltelli serramanico i loro accessori. “Siamo insieme ormai da 3 anni. Ognuno di noi ha una storia diversa alle spalle, ma dentro la gang siamo tutti uguali”, spiega Marco (nome di fantasia), indicato come capo branco dagli altri. “Prima è cominciato come un gioco: passavamo le giornate a imbrattare i muri e vandalizzare la città. Poi siamo entrati nel giro della droga, e abbiamo scoperto che è più vantaggioso e divertente”, continua il ragazzo. La voce di Marco è impassibile: è lui il proprietario della spaziosa casa, regalatagli dai genitori appena compiuti 18 anni. Gli abiti che indossa raggiungono un valore di quasi duemila euro. “Molti di noi vengono da famiglie agiate e non hanno bisogno di soldi, per altri invece è un vero lavoro. Tutti però lo facciamo principalmente perché ci piace e ci fa sentire parte di qualcosa”, aggiunge il giovane.
Quello delle baby gang è un fenomeno in netta espansione in Italia. Il modello sono le bande latine: mischiano musica trap con alcol e droghe, non hanno codici di comportamento e la violenza è vista come forma di divertimento. I social network sono il palcoscenico, dove esibirsi per la platea degli internauti. “È un fenomeno che parte dal disagio, ed è una scelta condizionata dalle pressioni dei micro mondi in cui vive l’adolescente”, spiega Elena Mattioli, psicologa e psicoterapeuta esperta in dipendenze e disturbi in età adolescenziale. “Il primo micro mondo è quello familiare, ovvero i modelli al quale i ragazzi sono esposti. L’apprendimento derivante da un ambiente poco sano e con pochi valori non fa altro che aumentare il disagio. E questo vale sia per le famiglie indigenti sia per quelle benestanti. L’altro micro mondo è la società esterna, con l’influenza che hanno sulle nuove generazione i videogiochi, i social e le serie tv”, precisa Mattioli.
E questo non vale solo per i territori tipicamente inquinati dalle organizzazioni criminali. Nella classifica delle città-nido per giovani criminali spicca infatti su tutti Bologna, poi Roma e Milano, Genova, Catania, Palermo, Bari e infine Napoli. Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, il 6-7% degli under 18 vive esperienze di criminalità collettiva e, dai dati riportati dal ministero della Giustizia, il trend sembra in ascesa vertiginosa. I ragazzi affidati all’Ufficio di servizio sociale per i minorenni, infatti, sono al 15 agosto 2020 circa 16 mila, contro i quasi 21 mila totali del 2019 e del 2018.
A delinquere sono più i minori italiani (12 mila) di quelli stranieri (4 mila), con una prevalenza di genere tutta al maschile. Mentre il numero dei reati commessi da minori e giovani adulti in questa prima parte dell’anno sono 47.224, tra omicidi volontari (81), sequestri di persona (139), violenze sessuali (840), spaccio di stupefacenti (5.059). Senza contare tutti quei reati “minori” come furti, scassi e pestaggi, che spesso, come nel caso dell’omicidio del giovane Willy Monteiro a Colleferro, si trasformano in tragedia.
“Il passaggio da membro di una baby gang a componente di un branco che compie atti criminali è molto frequente. Spesso avviene anche all’interno degli stessi istituti penitenziari per minori”, specifica Corrado Sabatino dell’Uilpa, il sindacato della polizia penitenziaria. “La detenzione per alcuni di questi ragazzi andrebbe del tutto evitata. All’interno delle carceri vengono a contatto con una realtà che si trasforma in una palestra di criminalità. Gli istituiti sono quasi tutti di piccole dimensione e il baby boss omicida convive con chi è autore di furto o scasso, che diventa in breve tempo un affiliato”, continua Sabatino.
Tutto però nasce tra i banchi di scuola, dove il primo test per entrare nella gang parte dagli atti di bullismo. “Molti di noi hanno frequentato la stessa classe, anche se andiamo poco a scuola. Il gruppo originale è nato così, chi picchiava più forte era dentro. Senza accorgercene, adesso siamo diventati almeno una decina e riusciamo a guadagnare quasi mille euro a testa al mese”, puntualizza Marco.
Causa e conseguenza sono anche gli abbandoni scolastici dei giovani dai 18 ai 24 anni, superiori di quasi 4 punti percentuale alla media Ue (13,5% contro il 10%), con una propensione più consistente nel Mezzogiorno. “Sono molti i ragazzi che dopo la rinuncia allo studio commettono atti di devianza minorile di gruppo. E se prima negli istituti penitenziari si trovavano solo giovani provenienti dall’America latina, che arrivati con le famiglie in Italia ricostruivano le bande che avevano nel Paese di origine, adesso ci sono adolescenti siciliani o napoletani che per esigenze economiche o per diletto giurano fedeltà alla gang. Oppure altri che all’interno delle carceri ritrovano, per corrispondenza, tutti i componenti della famiglia, dal padre al fratello”, conclude Sabatino.