Affari&Finanza, 21 settembre 2020
Cosa rischia la City di Londra con la Brexit
Dopo la City deserta in estate - ora molto meno - lo stesso è capitato al secondo avveniristico polo finanziario di Londra, Canary Wharf, nella zona est della capitale, negli ex "docks", dove gli uffici sono sempre più vuoti e i prezzi degli immobili stanno crollando. Ma al di là dello smartworking e dell’indotto che sta venendo a mancare, c’è un grande dilemma che si aggira nella finanza londinese. La Brexit quanto farà male alla City e al settore finanziario britannico che l’anno scorso ha versato il record di 75,5 miliardi di sterline all’erario e che conta il 7% dell’output economico e 1 milione di posti di lavoro in tutto il Paese? Le risposte non sono univoche perché i terremoti finanziari si espandono rapidamente senza confini.
Per questo, come anticipato da Repubblica nei giorni scorsi, l’Unione Europea ha praticamente deciso di concedere alla City di operare con clienti europei, attraverso le "clearing houses" e i derivati, su un gran numero di servizi finanziari ancora per 18 mesi dopo la Brexit, come accade oggi, fino a metà 2022. Quindi, nonostante il rischio di un’uscita senza accordo di Londra dall’Ue il 31 dicembre prossimo, parte del "passaporto" per la Borsa più importante del continente è stato momentaneamente rinnovato. Non del tutto però: la commissione Ue non ha ancora concesso "l’equivalenza" piena per i servizi finanziari, che eviterebbe impedimenti normativi e costi supplementari per le operazioni. Perché Bruxelles non sa quanto Londra divergerà dalle regole finanziarie Ue nei prossimi anni, per magari diventare una nuova Singapore, come il premier Johnson non ha mai escluso.
Le clearing housesCerto, anche questa concessione sulle "clearing houses" fino al 2022 in futuro potrebbe essere ritirata, o quantomeno rinegoziata, a seconda del comportamento di Boris Johnson sulla Brexit, negli ultimi tempi clamoroso dopo le minacce di violare i trattati internazionali sull’Irlanda del Nord. A quel punto Londra dovrebbe chiudere 27 accordi bilaterali con i partner Ue, cosa che potrebbe provocare smottamenti nel cuore finanziario del Regno Unito. Le clearing houses sono le camere di compensazione inglesi che risalgono alla fine del ’700 e che ogni giorno trattano almeno 850 miliardi di euro. Il cuore e l’ossatura della finanza londinese, le società che permettono il funzionamento dei mercati – soprattutto quello dei derivati - frapponendosi tra banche, istituzioni finanziarie e grandi intermediari per ridurre i rischi nelle compravendite di titoli e aggregando le transazioni tra due parti per definire, con un unico saldo, le loro posizioni di dare e avere.
Secondo gli esperti, uno stop alle operazioni denominate in euro ai danni delle clearing houses avrebbe potuto far perdere una grossa fetta di business alla City: un potenziale trasloco in Europa di dipendenti e manager tra le 90mila e le 200mila persone e un aumento di 70 miliardi all’anno dei costi per le altre compagnie del London stock exchange. Londra ospita le quattro maggiori clearing houses del continente: Lhc, Ice, Cme ed Euroccp. Colossi che da soli trattano il 75% di derivati in euro (su un business totale di 735 trilioni) e muovono circa 126mila miliardi all’anno, tra l’80 e il 90% dell’intero mercato Ue. Non concedere questa "estensione" da parte dell’Ue avrebbe soprattutto causato enormi problemi a molte banche e istituzioni finanziarie anche europee, nel passaggio da un sistema all’altro. L’anno scorso l’Ue aveva già provato a fare una cosa simile con la Svizzera durante le trattative per un accordo commerciale con l’Europa, per poi desistere in quanto controproducente.
L’Europa si emancipa dalla cityCerto, l’obiettivo a lungo termine dell’Europa è quello di dipendere sempre meno dalla City di Londra e risucchiare risorse e peso alla capitale britannica, costruendo nel frattempo il suo impero finanziario. Ma il dominio di Londra nel settore è al momento inattaccabile: la City è oggi di gran lunga il più grande mercato nelle operazioni in valuta estera nel mondo, con il 43% della "torta", mentre New York, seconda, è ferma al 16,5%. Provare a togliere lo scettro al London stock Exchange della capitale britannica, nonostante il potenziale indebolimento causato dalla Brexit, è al momento impresa complicatissima e creerebbe tensioni sui mercati che impatterebbero severamente anche l’Ue, come nel settore di strumenti finanziari dei derivati "over-the-counter" (fuori dai mercati quotati): l’unico corrispettivo europeo Eurex al momento fattura "solo" 7,3 trilioni di derivati swap contro i 45,8 trilioni di Londra. E il deficit di tutta l’Europa nei servizi finanziari rispetto a Uk è di circa 35 miliardi. Anche le previsioni sulla fuga di operatori da Londra sinora è stata fortemente esagerata: dopo il referendum Brexit, il gruppo Frankfurt Main Finance sosteneva che Francoforte avrebbe attirato a lungo termine 10mila banchieri dalla City: in realtà, sinora sono stati solo 1.500, con altri duemila potenziali dopo il 31 dicembre. Certo, la vicenda è molto più complessa.
C’è la questione banche, per il cui il governatore della Bank of England Andrew Bailey, oltre ad alludere a incombenti tassi negativi, ha esortato gli istituti a prepararsi per il "No Deal", cioè all’uscita senza accordo dall’Ue. C’è la questione hedge fund inglesi, che a causa di Brexit e crisi Covid si sono fatti superare dagli americani, come ha scritto il Financial Times qualche giorno fa, con la quota dei britannici della torta mondiale di fondi che è scesa dal 14,9% del 2015 al 12,6% all’inizio della pandemia, e ora, con la l’uscita dall’Ue, si teme di perdere clienti Ue e incontrare molti ostacoli nella gestione di hedge fund europei.
C’è inoltre la questione degli asset volatilizzatisi da Londra, circa un trilione di euro secondo EY dal referendum della Brexit, perché ovviamente tante banche e aziende si sono organizzate e hanno replicato le loro strutture in Paesi dell’Unione Europea. Una tempesta perfetta? Chissà. Secondo un’analisi di "FnLondon" alla City importa poco dello stallo Brexit: tre quarti di 138 personalità leader della finanza consultate da EY lo scorso luglio pensano che Londra non avrà mai totale equivalenza con l’Ue e si stanno preparando al peggio sin dal 2016. Tutto calcolato? Vedremo.