La Stampa, 21 settembre 2020
Biografia di Gore Vidal
Era un uomo brillante e spocchioso, colto e profondamente snob, raffinato e perennemente annoiato. Era la personificazione vivente di quello che gli americani chiamano entitlement, il sentirsi qualcuno per diritto naturale: guardava chiunque dall’alto in basso, sia che si trattasse di Federico Fellini o del Presidente degli Stati Uniti, rivelando un inarrestabile complesso di superiorità, che sembrava nascere dalla noia e da un divorante senso di inappagamento. Si è cimentato nel romanzo, nella saggistica, nel teatro, nel cinema e anche in politica, ma non c’era settore che gli sembrasse al livello del suo talento. Nell’intimo era un decadente, e a rivedere oggi la sua produzione sono poche le opere che resteranno, a differenza di quello che accade con il suo storico rivale che detestava profondamente: Truman Capote. Geloso dal suo costante successo si abbandonava a perfidie a sangue freddo: «tenta disperatamente di entrare in un mondo da cui io cerco disperatamente di uscire» disse, riferendosi alle frequentazioni altolocate del rivale dalle umili origini. Capote replicò, raccontando che Vidal era stato cacciato dalla Casa Bianca in stato di ubriachezza dopo aver molestato Rose Kennedy, generando una faida che fece la gioia dei rotocalchi. Il gusto della battuta spietata sconfinava a volte nel cattivo gusto: quando Capote morì ostracizzato dall’alta società Gore commentò «una buona mossa per la sua carriera».
Provava un gusto irresistibile nella cattiveria, e amava rivelare segreti inconfessabili del male che alligna negli esseri umani: «ogni volta che un amico ha successo, muore una parte di me». Col tempo elaborò una variazione sullo stesso tema: «non basta vincere, è necessario che qualcuno perda», e poi «ogni buona azione sarà punita». C’era tuttavia un elemento positivo: Gore era un polemista di primissimo ordine, e non c’era volta che non fosse stimolante. Non gli si può inoltre negare un importante lavoro di ricerca di talenti di ogni parte del mondo, a cominciare da Italo Calvino, che deve a un suo saggio gran parte del successo internazionale.
Era nato nel 1925 nell’ospedale militare di West Point con il nome di Eugene Luther Vidal e una delle prime cose che ti diceva era che il nonno, il senatore Thomas Prior Gore «aveva creato l’Oklahoma». Era parente di Al Gore, per cui aveva una discreta considerazione: guardava anche lui dall’alto in basso, però, chissà quanto sarebbe stato più bravo lui, al suo posto, se fosse stato eletto le due volte che tentò la carriera politica. «Metà degli americani non hanno mai letto un giornale - commentò in quei giorni - Metà non ha mai votato per un presidente: ci si può solo augurare che sia la stessa metà». Era imparentato anche con Jackie Kennedy, che gli affidò il compito di invitare intellettuali e artisti alla Casa Bianca quando divenne First Lady . Buona parte del mito di Camelot si deve anche a lui e non c’era ricevimento in cui non sedesse nel tavolo d’onore e allietasse gli ospiti con a perfida arguzia: in realtà non sapeva fare a meno del mondo patrizio in cui era nato.
Scoprì presto la propria omosessualità e la visse apertamente, teorizzando che ognuno in realtà è bisessuale: parlava delle sue conquiste, e dichiarava di aver avuto una relazione con Fred Astaire e Dennis Hopper. Nelle sue opere questo elemento è presente quasi sempre, a volte con trovate brillanti, come in Ben Hur, che sceneggiò per William Wyler: fu abilissimo a scrivere i riferimenti omosessuali in modo che Charlton Heston non se ne accorgesse. Mi raccontò personalmente l’evoluzione della sceneggiatura, e l’esperienza infelice con il Caligola di Tinto Brass, nel corso del nostro primo incontro alla Rondinaia, la splendida villa in cui visse per molti anni a Ravello: riteneva l’Italia il paese più bello del mondo. Ero andato a intervistarlo per Palinsesto, la sua autobiografia, e dopo avermi mostrato la piscina piastrellata di pietre color zaffiro, suggerì di vedersi in un ristorante del paese, chiedendomi poi di pagare il conto: non era avarizia, ma un’ennesima azione del suo entitlement. Era con Howard Austen, che fu suo compagno per 53 anni: «il segreto della longevità del nostro rapporto è che non facciamo sesso», ci tenne a spiegare, raccontandomi che aveva avuto una relazione con Joanne Woodward, prima che lei sposasse Paul Newman.
Nulla lo eccitava come rievocare il celebre scontro televisivo con William Buckley, l’intellettuale conservatore che era stato invitato insieme a lui a commentare le convention del 1968. Per tutto il programma lo provocò chiamandolo cripto-nazista, fin quando Buckley perse le staffe e lanciò in diretta pesante insulto omofobo: esattamente quello che voleva Gore. Rimasero leggendari anche gli scontri con Norman Mailer: condivideva buona parte delle idee, eppure Gore amava fargli perdere la pazienza, finché una volta, in tv, Mailer minacciò di malmenarlo in diretta. Era felice se vedeva i rivali perdere la pazienza e mostrare debolezza, specie quando non era in grado di tener loro testa intellettualmente. Lo snobismo e lo spirito di contraddizione a volte lo portarono su posizioni indifendibili: nel 1990 era presidente di giuria del festival di Venezia e preferì premiare Rosenkrantz e Guildersten sono morti di Tom Stoppard, poco più che un simpatico divertissement piuttosto che celebrare un capolavoro come Goodfellas. Ho avuto il privilegio di vedere il film segreto che lo vede protagonista, interpretato da Kevin Spacey, e per questo cestinato dalla Netflix. Pur non somigliandogli fisicamente, l’attore è straordinario nell’ immortalarne i gesti e la cadenza, e soprattutto l’attitudine seducente e diabolica: un ritratto spietato, ma purtroppo veritiero.
Per quanto piena di provocazioni fine a se stesse, è interessante la sua riflessione costante sul proprio paese, che considerava un impero violento e decadente. Lo definiva «Stati Uniti dell’amnesia: non impariamo niente perché non ricordiamo niente». Era contrario ad ogni forma di intervento militare, e arrivò a sostenere che Roosevelt avesse provocato l’attacco a Pearl Harbour in modo da poter entrare in guerra. Il suo approccio paradossale lo portò ad avere un rapporto empatico con Timothy McVeigh, l’autore del massacro di Oklahoma City: riteneva che il suo gesto nascesse dalla disillusione totale nei confronti di un governo che ripetutamente tradiva i propri cittadini. Detestava ogni religione e dedicò un testo osannante a Giuliano l’apostata, che tentò di ripristinare il politeismo: «il monoteismo è la più grande disgrazia capitata alla razza umana». Negli ultimi anni divenne un fiero oppositore di Bush, che disprezzava anche sul piano culturale. Beveva molto, come il suo rivale Capote, ed era furioso di non avere più la lucidità per scrivere. Una delle sue ultime battute, in puro stile Vidal, è stata: «scrivi qualcosa, anche se è solo un biglietto di suicidio».